Il culto nel corpo, con le relative ossessioni, non è recente. Ha radici antichissime e alcuni studiosi lo fanno risalire al 60mila avanti Cristo, alle prime popolazioni di aborigeni australiani, i precursori di forme primitive di chirurgia estetica e di tatuaggi. Dipingevano la propria pelle in modo indelebile, anche a costo di procurarsi ferite che non si cicatrizzavano, per apparire più belli ai propri occhi e a quelli degli altri. E nell’antica Grecia le prime Olimpiadi si celebrarono con atleti nudi, per mostrare la bellezza del loro corpo.
Il salto di qualità, nell’era contemporanea, di questa ossessione è legato alla deriva patologica che ha assunto: dall’ossessione per il corpo nascono problemi psico-fisici che si allargano a macchia d’olio. A parte i classici disturbi alimentari (anoressia e bulimia), aumentano malattie come la dismorfobia, una patologia mentale con l’ossessiva preoccupazione per alcune parti del proprio corpo e per l’aspetto estetico; oppure la vigoressia, che nasce dal desiderio irrealizzabile del fisco perfetto, a qualsiasi costo, anche con il rischio di stravolgerlo, contro qualsiasi legge della natura.
L’ossessione che si accompagna a una quantità di interventi, spesso autentici sprechi di spontaneità, bellezza, e anche soldi, considerando che il culto del corpo nell’epoca moderna è innanzitutto un’industria più che una filosofia di vita, è uno degli effetti collaterali del dilagante narcisismo. Ci guardiamo allo specchio e non ci accettiamo, perché siamo fragili, ciascuno pieno di sé, poco attirati dagli altri, ma solo dalla propria immagine riflessa allo specchio. Donne giovani, belle, affascinanti, arrivano a violentare il volto e l’espressione del viso, gonfiando le labbra ridotte a mini-canotti che navigano tra le onde formate dalle rughe. Uomini attraenti, e anche dotati di un loro carisma, si lasciano sedurre da qualche pifferaio della nuova bellezza maschile, sempre più simile a quella femminile, per pagare l’obolo alla fabbrica dei ritocchi e del bisturi. Il culto del corpo ricorda molto da vicino l’illusione della vita che si può allungare all’infinito, a colpi di fitness e benessere, come se una settimana alle terme fosse sufficiente a diventare centenari. I capelli bianchi, con il loro fascino fatto di naturalezza e tempo, bellezza e autorevolezza, sono ormai considerati un tabù. C’è sempre un colore da appiccicare alla testa.
A nessuno piace invecchiare, dimenticando che si tratta di un’altra legge di natura, e accettarsi per quello che siamo è faticoso, talvolta perfino doloroso: significa riconoscere le nostre fragilità, e trovare la forza per lavorarci, come in un cantiere dove non ci sono giorni festivi. Il culto del corpo, come scorciatoia della difficoltà di essere, diventa così un derivato tossico della civiltà dell’apparire, che azzera l’unicità della persona umana e ci lascia soli, nel mito delle apparenze, di fronte al nostro specchio quotidiano, come se ogni giorno dovessimo superare la prova di un casting cinematografico. In una magra contabilità di consensi, di approvazioni, o di insulti e di ciniche battute, che talvolta si raccolgono nella palude del web, dove nell’indifferenza e nel cinismo si consumano autentiche tragedie per l’ossessione del corpo.
Beatrice Inguì era una ragazzina di 15 anni, studiava al liceo musicale Lagrangia di Vercelli, e sognava di diventare una cantante lirica, un soprano. Tutto normale per la sua età. Tranne un particolare: Beatrice non accettava la sua immagine, il suo peso, e si considerava troppo cicciona. Magari qualcuno l’avrà presa in giro, via web con la solita dimensione virale di questi odiosi insulti, magari nessuno era riuscito a contenere la sua fragilità, fatto sta che Beatrice ha deciso di togliersi la vita. E si è lasciata travolgere sui binari ferroviari dal treno Torino- Milano. La vita di Beatrice, quando doveva davvero iniziare, nella curva a gomito dell’adolescenza, è andata via, in pochi secondi, sull’altare di una nuova adulazione che abbiamo costruito nelle civiltà della sottocultura dell’apparire: il culto del corpo. Bisogna essere magri. Bisogna essere belli. Bisogna piacere. E chi non ci riesce si sente escluso da qualsiasi comunità, si considera un rifiuto, uno scarto umano
Contro questa quotidiana tentazione di considerare il corpo, l’immagine, la rappresentazione estetica e virtuale di sé stessi, come l’alfa e l’omega delle nostre esistenze, dovremmo tutti ribellarci. Riportando il valore della vita, da non sprecare mai, al centro dei nostri interessi, del nostro accudimento, fermo restando che del proprio corpo ognuno è libero di fare ciò che vuole. . E ricordandoci che una ragazza grassa può avere un fascino molto più intenso di una magrolina: dipende dalla sua testa e dal suo cuore.
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