Meritocrazia: siamo ancora ultimi in Europa. Si va avanti solo con la raccomandazione

La posizione in classifica emerge da un indice stilato da tre professori universitari della Cattolica, che ci vede ultimi per distacco in confronto agli altri Paesi europei. Una situazione che ha fatto dilagare la rassegnazione tanto che l’81 per cento degli italiani è convinta che per la carriera servono amicizie e non merito

MERITOCRAZIA IN ITALIA

Siamo il Paese del merito sommerso. Non riconosciuto, non valutato, non incentivato. È quanto emerge dall’analisi del “Meritometro”, un indice interamente elaborato in Italia da tre professori dell’Università Cattolica, Paolo Balduzzi, Giorgio Neglia e Alessandro Rosina, insieme al “Forum della Meritocrazia”, che assegna una “pagella”, con base 100, ai sistemi che valorizzano il merito, e dunque un’uguaglianza di opportunità, innanzitutto di studio e di lavoro. Insomma un modo per valutare la capacità dei Paesi di premiare le doti e la capacità di progetto di ciascuno. Da questa analisi è nata una classifica nella quale l’Italia è tristemente ultima con appena 23,15 punti e con 44 punti di distacco dalla Finlandia, prima in classifica, e 10 punti dalla Spagna penultima. “È la fotografia di un Paese ingiusto, che scoraggia la ricerca del talento, favorisce i soliti noti, e non riesce a riprendere la strada della crescita economica” commenta il professore Rosina.

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RACCOMANDAZIONI PER TROVARE LAVORO IN ITALIA

Una società a un livello così basso di tasso di meritocrazia, infatti, si blocca e il suo ascensore sociale risulta fermo. Il contrario degli anni del boom, quando appunto erano proprio le capacità individuali, spinte da un’energia collettiva, a schiacciare l’acceleratore del motore del riscatto e della crescita. Il figlio del contadino, studiando con profitto, poteva aspirare a un posto di impiegato, di libero professionista, con un salto significativo nella scala sociale tra una generazione e l’altra. Così l’operaio che sognava di mettersi in proprio, l’artigiano che si trasformava in piccolo imprenditore. Adesso l’81 per cento degli italiani sono convinti che per affermarsi servono rapporti, relazioni, amicizie. Cioè raccomandazioni. Il lavoro, quando c’è, si tramanda di padre in figlio, come nella giungla delle cattedre universitarie o in buona parte dell’universo professionale: Almalaurea ha calcolato che 4 laureati su 10 ereditano l’attività del padre.

VALORE DELLA MERITOCRAZIA

Poco merito significa stipendi e guadagni meno consistenti, e un livellamento delle retribuzioni verso la fascia bassa della scala. Qui il paradigma è il pubblico impiego dove valutare il merito e poi gratificarlo anche sul piano monetario è da sempre impossibile, grazie alla granitica e corporativa resistenza del sindacato. Un bravo insegnante che ama la sua scuola, guadagna come il collega fannullone (non a caso il 22 per cento dei docenti, ogni anno, cambia scuola); il vigile urbano assenteista a Roma, con certificati medici falsi, si ritrova con una busta paga uguale a quella del piedipiatti che ogni giorno suda in strada; il magistrato, come il professore universitario, fanno carriera esclusivamente in base all’anzianità. Se sono asini, pazienza. Con questo meccanismo del “tutto a tutti” il livello medio di un insegnante scolastico è scandaloso, 24.846 euro l’anno, e vale la metà del collega tedesco che con i bonus legati appunto ai risultati, e quindi al merito, intasca mediamente 44.823 euro.

IMPORTANZA DELLA MERITOCRAZIA

La carriera e lo stipendio che partono dalla raccomandazione e si appiattiscono nella parte bassa della curva, scoraggiano i giovani a cercare lavoro. “Le nostre ricerche dimostrano, dati alla mano, che il principale motivo che spinge le nuove generazioni a una forma di emigrazione di massa è proprio la mancanza di meritocrazia in Italia. Di fronte a un Paese bloccato, dove non posso giocamela con pari opportunità, non resta che la fuga” commenta Rosina. La fuga degli italiani all’estero, ormai milioni, non riguarda solo i meno preparati, ma al contrario si sta gonfiando tra quelli che hanno studiato con migliori risultati. In pratica formiamo forza lavoro di qualità con i soldi dei contribuenti italiani, poi la perdiamo a vantaggio dei paesi stranieri. Intanto la raccomandazione elevata a metodo (4 milioni e 200mila cittadini sono ricorsi alla raccomandazione, nell’ultimo anno, per accelerare una pratica nella pubblica amministrazione, secondo una ricerca del Censis), rischia di premiare i meno capaci, che non hanno bisogno di emigrare grazie alle spintarelle sulle quali possono sempre contare.

Infine, senza il merito assistiamo impotenti a una costante perdita di qualità dell’intero sistema della formazione ed a quello che il governatore Ignazio Visco, nel suo libro Investire in conoscenza, definisce “l’impoverimento del capitale umano”. È come se un giovane dicesse: ma se il merito non serve per trovare un lavoro e per guadagnare bene, perché dovrei sbattermi nello studio? Spiega Rosina: “Si tratta di un circolo vizioso, che spinge a investire sempre meno nella formazione, il fattore oggi essenziale della crescita e della produttività dell’economia”. Ecco perché ci ritroviamo con una quota di laureati nella popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni pari all’11 per cento contro il 25 per cento della media dei paesi dell’Ocse e il 23 per cento dei 19 paesi dell’Unione europea che sono anche membri dell’Ocse.

QUALITÀ DEL SISTEMA DI FORMAZIONE IN ITALIA

Si può fare qualcosa per invertire la tendenza e bloccare la deriva della meritocrazia? E da dove partire? Diciamo subito che non è un governo, anche il più efficiente possibile, che può modificare uno scenario sul quale bisogna combattere in primo luogo una battaglia culturale. Certo, dall’esecutivo di Renzi ci aspettavamo più coraggio nell’affermare il merito all’interno della pubblica amministrazione (a partire dai contratti e dalla parte variabile delle retribuzioni) e nell’imporre il diritto-dovere alla valutazione, premessa per riconoscere e premiare i più capaci, di scuole, università e uffici. Ma i valori del “meritometro” potranno cambiare in modo sostanziale quando tutti saremo convinti che rinunciare all’ombrello della raccomandazione, sfidare il concorrente sulla base delle competenze e non delle conoscenze, distinguere il familismo da sane e utili relazioni, restituire una gerarchia alle doti individuali, sono scelte che convengono. Aprono una società, rendendola più giusta, favoriscono una solida crescita economica, danno luce al futuro. E magari spingono i nostri figli a non lasciare in massa l’Italia.

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