
App, una delle aziende di
legname responsabili del
disboscamento della foresta
pluviale di Sumatra, si serve di
un ex ecologista per rifarsi
un’immagine
Non mi capita spesso di elogiare
la catena di supermercati Tesco,
ma in questo caso va fatto,
perché l’estate scorsa ha eliminato
un suo fornitore per ragioni etiche. Si
tratta di un colosso i cui contatti nella sfera
politica ed economica fanno sembrare la
Tesco un negozietto. è l’Asia Pulp and Paper
(App) e per quanto mi riguarda è una
delle aziende più dannose del pianeta.
L’App fa parte della conglomerata sinoindonesiana
Sinar Mas, di proprietà della
ricchissima dinastia Widjaja. Fondata nel
1962, è diventata una delle più potenti
aziende asiatiche durante il regime del dittatore
indonesiano Suharto, con interessi
nell’olio di palma, nel carbone, negli immobili
e nelle banche. Da anni è il bersaglio
delle critiche dei gruppi che difendono i diritti
umani e l’ambiente, ma ora ha una nuova
missione. Nel 2001, infatti, è stata insolvente
per la sconcertante somma di 13,9
miliardi di dollari. La maggior parte delle
aziende sarebbe fallita, ma nel suo caso una
parte del debito è andata a carico dei contribuenti
indonesiani e circa la metà è stata
ristrutturata. Secondo alcuni, la società sta
estinguendo i debiti tagliando gli alberi.
Le foreste di Sumatra spariscono più velocemente
di tutte le altre. Quelle che sopravvivono
hanno la maggiore biodiversità
del pianeta. Molti grandi mammiferi – come
la tigre, l’orango, l’elefante e il leopardo
nebuloso – sono a rischio di estinzione. La
deforestazione colpisce tutti perché espone
uno dei più grandi depositi di torba della
Terra. Quando la torba si asciuga comincia
a ossidarsi, producendo anidride carbonica.
La deforestazione è il motivo per cui
l’Indonesia è il terzo paese al mondo per
emissioni di gas serra dopo Stati Uniti e Cina.
Secondo il gruppo ambientalista Wwf,
l’App è responsabile della “deforestazione
di Sumatra… più di ogni altra azienda”. Dagli
anni ottanta, sostiene il Wwf, l’App ha
disboscato oltre un milione di ettari. A luglio
del 2010 un gruppo di ong della provincia
di Riau, a Sumatra, ha pubblicato un
rapporto sulle attività dell’azienda secondo
cui alcune delle foreste distrutte sono all’interno
di una riserva della biosfera che l’App
sostiene di tutelare e in altri siti vitali per la
difesa della tigre.
Nel 2003 l’App ha annunciato che entro
il 2007 avrebbe smesso di trasformare le
foreste pluviali in pasta da carta e che si sarebbe
occupata solo di arboricoltura da legno.
Il rapporto delle ong, però, l’accusa di
non aver mantenuto la promessa. Secondo
il Wwf, l’App minaccia le foreste in cui, con
grandi costi e diicoltà, è stato reintrodotto
l’orango di Sumatra. Nel 2010 Greenpeace
ha seguito gli alberi tagliati, dagli habitat
cruciali per la tigre ino alle fabbriche di pasta
da carta dell’azienda, e ha pubblicato le
foto della deforestazione con i riferimenti
gps. Le mappe pubblicate dal ministero delle
foreste indonesiano indicano che molte
aree da cui le aziende dell’App sostenevano
di estrarre la ibra non contengono piantagioni
da raccolta.
Nel 2003 Human rights watch ha difuso
un resoconto delle aggressioni subite dai
proprietari delle terre concesse dal governo
a una delle società del gruppo App. Le aggressioni
erano eseguite dalla polizia indonesiana
e dal personale dell’azienda. L’App
ha sempre negato le accuse sostenendo di
essere sensibile all’ambiente e di agire
nell’interesse delle popolazioni indigene,
ma non ha risposto alla richiesta del Guardian
di commentare i fatti.
Se l’espansione può aiutare il gruppo a
saldare i debiti, le sue presunte attività stanno
però allontanando i clienti. Nel 2008 la
società di prodotti per uicio Staples ha deciso
che comprare carta dall’App era un
“grande pericolo per il marchio”. Oice Depot,
Carrefour, Gucci, H&M, Hugo Boss, Volkswagen,
Fuji Xerox, Ricoh, Sainsbury’s,
Marks & Spencer e Tesco sono tra le
aziende giunte alla stessa conclusione. A
marzo del 2010, 35 ong indonesiane hanno
inviato una lettera aperta ai clienti dell’App
invitandoli a dissociarsi. Greenpeace ha
lanciato un appello simile in estate.
Che fare, quindi, se il proprio marchio diventa
scomodo? Basta ingaggiare il consulente
canadese di pubbliche relazioni Patrick
Moore, direttore della ditta di Vancouver
Greenspirit Strategies che ha sviluppato
“messaggi sostenibili” per imprese di legname,
estrazione mineraria, fusione del
piombo, energia nucleare, biotecnologia,
allevamento ittico e plastica. Moore è molto
abile, specializzato nel cambiare le carte in
tavola. Alcuni ambientalisti lo considerano
il manipolatore di notizie più spudorato che
ci sia. Ha deinito la deforestazione la creazione
di “radure in cui i nuovi alberi possono
crescere al sole”. Ha suggerito che i pidocchi
di mare (trasmessi dai salmoni d’allevamento
ai pesci selvatici spesso con effetti
devastanti) sono “buoni per i salmoni
selvatici”, che mangiano le larve. Ha giustiicato
l’estrazione dell’oro, che ha causato
gravissimi versamenti di cianuro di sodio,
dicendo che “il cianuro è presente nell’am-
biente e disponibile in molte specie di piante”.
La risorsa principale per le aziende che
rappresenta, però, è che Patrick Moore è
stato uno dei fondatori e leader di Greenpeace.
Nel 1971 era un dottorando idealista,
con i capelli afro e i bai alla Sgt. Pepper, ferocemente
contrario ai piani statunitensi
per testare le bombe all’idrogeno nelle isole
Aleutine. Fu scelto per il viaggio inaugurale
del gruppo antinucleare Don’t make a wave
committee, che voleva raggiungere il sito
dei test a bordo di un vecchio peschereccio
per la pesca degli halibut. L’equipaggio ribattezzò
la barca Greenpeace e quando il
comitato decise di scegliere un nome più
semplice adottò questo.
Moore è diventato uno dei portavoce più
efficaci di Greenpeace e ha organizzato
campagne contro le navi per la guerra nucleare
e l’uccisione a bastonate di balene e
foche. È stato il responsabile della Fondazione
Greenpeace, in seguito diventata
Greenpeace Canada, e direttore di Greenpeace
International. Poi, negli anni ottanta,
è andato tutto storto. Moore sostiene di
aver rotto con Greenpeace su questioni
scientiiche, mentre per il gruppo se n’è andato
dopo che il suo stile dispotico gli era
costato i voti necessari a restare nel consiglio
direttivo. Comunque sia andata, nel
1986 Moore è uscito da Greenpeace e ha
aperto un allevamento di pesci sull’isola di
Vancouver, chiuso nel 1991 quando il prezzo
del salmone si è dimezzato. A quel punto
ha preso due decisioni che avrebbero segnato
la sua carriera: è entrato nel consiglio
direttivo della Forest Alliance of British Columbia,
un gruppo creato dalle aziende di
legname per combattere i verdi che tentavano
di impedire il radicale disboscamento
di foreste secolari, e ha fondato la prima
delle sue ditte di consulenza. Nel 2001 ha
aperto la Greenspirit Strategies insieme a
due esperti di pubbliche relazioni con cui
aveva lavorato per la Forest Alliance.
Per l’App, Moore era l’uomo ideale a cui
rivolgersi nella battaglia contro Greenpeace
e gli altri gruppi. Ha chiesto alla Greenspirit
Strategies di passare dieci giorni “a
esaminare le attività di App in Indonesia”
per “stabilire se l’azienda si comporta in
maniera responsabile nei confronti dell’ambiente”,
spiega Moore. Il suo rapporto è stato
pubblicato a novembre del 2010 ed è un
documento afascinante. Invece di danneggiare
la foresta, hanno concluso Moore e i
suoi colleghi, l’App è “impegnata in una gestione
sostenibile di prim’ordine della foresta”.
Senza le attività del gruppo, anzi,
“l’habitat della tigre di Sumatra sarebbe ancora
più in pericolo” perché le sue concessioni
fungono da “cuscinetto” tra le foreste
in cui vivono le tigri e “l’invasione umana”.
Il gruppo disbosca solo le foreste “degradate”,
dove la rimozione degli alberi è “necessaria
per far spazio alle piantagioni”.
Per il rapporto la deforestazione non è
causata dall’App, ma dai contadini “che
s’impadroniscono illegalmente delle foreste
in cerca di mezzi di sostentamento migliori”.
Assumendo gli indonesiani, l’App
riduce la deforestazione perché più occupazione
signiica meno povertà, che a sua volta
previene il trasferimento nella foresta. Le
critiche all’industria indonesiana della pasta
da carta, sostiene Moore, sono il risultato
del tentativo delle “potenze coloniali
occidentali” di impedire all’Indonesia di
modernizzare la sua economia.
Le prove accumulate dai gruppi ambientalisti
raccontano un’altra storia. Sembra
che l’App stia disboscando proprio le aree di
foresta che, secondo il rapporto di Moore,
dice di tutelare. Invece di impedire alla popolazione
di sconinare nella foresta, sostengono
i verdi, l’App sta accelerando il
fenomeno costruendo strade per raggiungere
siti prima inaccessibili. Malgrado questo,
la dettagliata mappatura delle concessioni
commerciali, confermata dalle immagini
satellitari e dalle foto scattate a terra,
indicano chiaramente che sono le aziende
di pasta da carta, e non i contadini, le principali
responsabili della deforestazione in
quei luoghi. Secondo il Wwf, l’App classica
come “degradata” ogni foresta che vuole
abbattere.
Il rapporto di Moore, inoltre, deinisce il
suo lavoro “un’ispezione” delle attività
dell’App. La sua ditta, però, non è una società
di controllo e i due colleghi di Moore non
sono esperti di ecologia tropicale né di diritto
indonesiano, ma di pubbliche relazioni.
Nel rapporto di 43 pagine non sono citate né
fonti né riferimenti (l’ultima indagine di
Greenpeace, invece, è di quaranta pagine e
contiene 304 rimandi alle fonti).
Comunque “l’ispezione” ha raggiunto il
suo scopo. Il Washington Post ha pubblicato
sul sito alcune dichiarazioni di Moore
sull’App senza metterle in discussione o
spiegare che Moore era pagato dal gruppo.
Le credenziali dell’autore, cofondatore di
Greenpeace con un dottorato in ecologia,
conferiscono al documento un peso che altrimenti
non avrebbe. Eppure a me sembra
che Moore non possa giocarsi per sempre
questa carta.
Prima o poi la sua credibilità di “ambientalista
di spicco” si esaurirà. Anche lui
diventerà un marchio scomodo, forse perino
al punto da danneggiare un’azienda che
tenta di rifarsi un’immagine. Per ora, però,
continua a lavorare.
George Monbiot, The Guardian, Gran Bretagna