
Ci piace pensare che siamo
creature razionali. Stiamo
attenti a quello che facciamo,
valutiamo i pro e i
contro, ci portiamo l’ombrello
nell’eventualità che
piova. Ma sia le neuroscienze sia le scienze
sociali ci dicono che siamo più ottimisti che
realisti. In genere, ci aspettiamo che le cose
vadano meglio di come poi effettivamente
andranno. Di solito sottovalutiamo le probabilità
che ci capiti di divorziare, di perdere
il lavoro o di scoprire che abbiamo un tumore.
Ci aspettiamo che i nostri figli siano
straordinariamente dotati, immaginiamo
di avere più successo dei nostri coetanei e
pensiamo di vivere più a lungo (a volte anche
di vent’anni).
Gli psicologi lo chiamano “pregiudizio
dell’ottimismo”: la convinzione che il futuro
sarà molto meglio del passato e del presente.
Questo fenomeno si riscontra in tutte
le società e in tutte le fasce economiche e
sociali. Quando immaginano quello che
faranno da grandi, i bambini sono estremamente
ottimisti, ma gli adulti non sono da
meno. Da uno studio del 2005 è emerso che
le persone oltre i sessant’anni hanno le stesse
probabilità dei giovani di vedere il bicchiere
mezzo pieno. Ci aspetteremmo che
l’ottimismo svanisca davanti al fiume di notizie
su guerre, disoccupazione, cicloni, alluvioni
e tutte le catastrofi che minacciano
la vita umana. A livello collettivo, in effetti,
possiamo diventare pessimisti: sulla direzione
che sta prendendo il nostro paese o
sulla capacità dei nostri politici di migliorare
l’istruzione e ridurre la criminalità. Ma
l’ottimismo privato, quello che riguarda il
nostro futuro personale, è incredibilmente
resistente. Lo dimostra un sondaggio condotto
nel 2007: anche se il 70 per cento degli
intervistati pensava che i matrimoni durassero
meno rispetto ai tempi dei nostri
genitori, il 76 per cento era ottimista sul futuro
della sua famiglia. L’eccessivo ottimismo
può portarci a commettere errori disastrosi,
a non sottoporci a controlli medici
regolari, a non usare creme per proteggerci
dal sole, a non risparmiare o addirittura a
perdere la casa per aver fatto un investimento
sbagliato. Ma quel pregiudizio ci
protegge anche, ci permette di andare avanti
invece di buttarci dalla finestra. Senza
ottimismo, i nostri antenati non si sarebbero
mai allontanati dalle loro tribù e forse
vivremmo ancora ammassati nelle caverne
sognando la luce e il calore.
Per poter progredire dobbiamo essere
capaci di immaginare realtà alternative,
migliori, e credere di poterle costruire.
Questa fiducia ci spinge a perseguire i nostri
obiettivi. Di solito gli ottimisti tendono
a lavorare e a guadagnare di più. Gli economisti
della Duke university hanno scoperto
che gli ottimisti risparmiano perfino di più.
E anche se hanno le stesse probabilità di divorziare,
è più probabile che si risposino, un
fatto che, come diceva Samuel Johnson, segna
il trionfo della speranza sull’esperienza.
Anche se quel futuro migliore è spesso
un’illusione, l’ottimismo presenta chiari
vantaggi per il presente. La speranza mantiene
viva l’intelligenza, riduce lo stress e
migliora la salute fisica. Da una ricerca sulle
malattie cardiache è emerso che le persone
ottimiste hanno maggiori probabilità di seguire
una dieta ad alto contenuto di vitamine
e basso contenuto di grassi e di fare esercizio
isico, riuscendo così a ridurre il rischio
coronarico. Mentre uno studio sui malati di
cancro ha verificato che i pazienti pessimisti
sotto i sessant’anni rischiano di più di
morire entro otto mesi rispetto ai coetanei
non pessimisti e nelle stesse condizioni.
In efetti, le ultime ricerche scientifiche
indicano che l’ottimismo potrebbe essere
frutto dell’evoluzione. La scienza dell’ottimismo,
un tempo disprezzata e intellettualmente
screditata, sta aprendo una nuova
prospettiva sul funzionamento della psiche
umana. E potrebbe scatenare una rivoluzione
nel campo della psicologia, dimostrando
che il nostro cervello non è condizionato
solo dal passato, ma è anche continuamente
plasmato dalla nostra visione del futuro.
Mi piacerebbe potervi dire che il mio
studio sull’ottimismo è nato da un profondo
interesse per il lato positivo della natura
umana, ma la realtà è che ho scoperto l’ottimismo
innato del nostro cervello per caso.
Dopo gli attentati dell’11 settembre a New
York, avevo deciso di fare una ricerca sul
ricordo che le persone avevano di quel giorno.
Mi aveva colpito un fatto: molti erano
convinti che i loro ricordi fossero estrema-
mente precisi, come un film stampato nella
loro mente, mentre spesso erano pieni di
errori. Un sondaggio condotto in tutto il
paese ha dimostrato che a undici mesi di
distanza, il ricordo che le persone avevano
di quell’esperienza coincideva solo per il 63
per cento dei casi al resoconto che avevano
fatto a ridosso dell’attentato. Gli intervistati
avevano anche difficoltà a ricordare i dettagli,
per esempio il nome delle compagnie
aeree. Da dove uscivano questi errori?
Gli studiosi della memoria hanno proposto
una risposta affascinante: forse i ricordi
a volte sono imprecisi in parte perché
il sistema neuronale addetto a ricordare gli
episodi del passato non si è evoluto solo a
quello scopo. Anzi, la funzione principale
della memoria potrebbe essere proprio immaginare
il futuro, per poterci preparare a
quello che verrà. Secondo gli scienziati il
sistema non è nato per riferire alla perfezione
gli eventi del passato, ma piuttosto per
costruire nella nostra mente scenari futuri.
Di conseguenza, anche la memoria finisce
per essere un processo di ricostruzione, e a
volte capita che inserisca alcuni dettagli e
ne cancelli altri.
Per verificarlo, ho deciso di registrare
l’attività cerebrale di un gruppo di volontari
mentre immaginavano avvenimenti futuri
della loro vita quotidiana e confrontare i risultati
con gli schemi che avevo osservato
quando quelle stesse persone ricordavano
il passato. Ma è successo qualcosa di strano.
Una volta che i volontari hanno cominciato
a immaginare il futuro, anche gli episodi
più comuni della vita quotidiana hanno preso
una piega ottimistica. Scene che normalmente
sarebbero state banali erano illuminate
da dettagli positivi, come se il copione
fosse stato scritto da un bravo sceneggiatore
di Hollywood. Pensate che non ci sia
niente di esaltante nell’immaginare di tagliarsi
i capelli? Sentite come una delle partecipanti
ha immaginato quel momento:
“Mi facevo tagliare i capelli per regalarli a
Locks of love (un’associazione di beneficenza
che confeziona parrucche per le giovani
malate di cancro). Ci avevo messo anni
a farli crescere e i miei amici erano tutti lì
per festeggiare con me. Andavamo dal mio
parrucchiere a Brooklyn e poi a pranzo nel
nostro ristorante preferito”. A un’altra ho
chiesto di pensare a un viaggio in aereo.
“Ho immaginato il decollo, il mio momento
preferito, poi la dormita di otto ore durante
il volo e alla fine l’atterraggio e l’applauso al
pilota”, mi ha risposto. Nessuna attesa in
pista, nessun neonato che strillava. Il mondo
era diventato un posto meraviglioso.
Cosa ci dice sul nostro cervello il fatto
che, quando si trattava del loro futuro personale,
tutti i volontari tendevano a pensare
positivamente? La propensione all’ottimismo
dipende da come è strutturato il cervello?
Per pensare positivamente a quello
che ci succederà dobbiamo prima essere in
grado di immaginare noi stessi nel futuro.
L’ottimismo comincia da quella che è forse
la più straordinaria delle capacità umane: la
possibilità di viaggiare mentalmente, di andare
avanti e indietro nel tempo e nello spazio.
Anche se molti di noi la danno per scontata,
questa capacità di immaginare uno
spazio e un tempo diversi in realtà è fondamentale
per la nostra sopravvivenza. Ci
permette di programmare, di conservare
cibo e risorse per i momenti in cui non potremo
disporne e di lavorare sodo in vista di
una ricompensa futura. Ci consente anche
di prevedere come il nostro comportamento
di oggi influirà sulle generazioni future.
Se non fossimo capaci di immaginare il
mondo tra cent’anni, ci preoccuperemmo
del riscaldamento globale? Ci sforzeremmo
di vivere in modo sano? Avremmo dei figli?
L’antidoto alla disperazione
Se la capacità di viaggiare nel tempo con la
mente ha i suoi vantaggi per la sopravvivenza,
la capacità di prevedere coscientemente
il futuro ha un prezzo altissimo, perché significa
renderci conto che un giorno dovremo
morire. Ajit Varki, un biologo
dell’università della California a
San Diego, sostiene che la consapevolezza
del fatto che siamo
mortali ha portato l’evoluzione in
un vicolo cieco. La disperazione
avrebbe interferito con le nostre mansioni
quotidiane impedendoci di portare avanti
le attività necessarie per sopravvivere.
L’unico modo in cui questa capacità di viaggiare
mentalmente nel tempo poteva emergere
nel corso dell’evoluzione è parallelamente
a un ottimismo irrazionale. La presa
di coscienza della morte doveva essere accompagnata
dalla tendenza a immaginare
un futuro luminoso.
La capacità di immaginare il futuro nasce
in parte nell’ippocampo, una zona del
cervello fondamentale per la memoria. Le
persone che hanno subìto lesioni all’ippocampo
non riescono a ricordare il passato,
ma non riescono neanche a costruire immagini
dettagliate del futuro. Sembrano
ferme nel tempo. Noi tutti ci spostiamo
continuamente avanti e indietro nel tempo.
Possiamo ricordare una conversazione che
abbiamo avuto ieri con nostra moglie o nostro
marito e subito dopo decidere dove
andremo a cena la sera. Ma il cervello non
viaggia nel tempo a caso. Tende a soffermarsi
su alcuni pensieri specifici. Pensiamo
a quello che faranno i nostri figli nella vita,
a come ottenere il lavoro che ci piacerebbe,
a come comprarci una casa in campagna o
trovare il partner ideale. Immaginiamo che
la nostra squadra vinca una partita decisiva,
aspettiamo con ansia una bella serata in
città o fantastichiamo di vincere al casinò.
Ci preoccupiamo anche di perdere le persone
che amiamo, di commettere errori nel
nostro lavoro o di morire in un terribile incidente
aereo, ma le ricerche dimostrano
che la maggior parte di noi passa meno
tempo a rimuginare sulle possibilità negative
che su quelle positive. Quando immaginiamo
una sconfitta o un infarto, tendiamo
a concentrarci su come evitarli. Da uno
studio che ho fatto qualche anno fa con la
neuroscienziata Elizabeth Phelps, è emerso
che la nostra tendenza a pensare positivamente
nasce dalla comunicazione tra la
corteccia frontale e le regioni subcorticali
più profonde del nostro cervello. La corteccia
frontale è la parte del cervello che si è
evoluta più di recente. Negli esseri umani è
più grande che negli altri primati ed è fondamentale
per molte funzioni come il linguaggio
e la capacità di stabilire obiettivi.
Con la risonanza magnetica funzionale
abbiamo registrato l’attività cerebrale di un
gruppo di volontari mentre immaginavano
speciici eventi del futuro che li
riguardavano. Alcuni erano eventi
desiderabili (come incontrare
un bell’uomo o una bella donna o
vincere una grossa somma di denaro),
altri indesiderabili (come
perdere il portafoglio o chiudere una relazione
amorosa). Tutti i volontari hanno detto
che le immagini degli eventi positivi erano
più dettagliate e più vivide di quelle degli
eventi negativi. Questo corrispondeva alla
maggiore attività che avevamo osservato in
due regioni critiche del cervello: l’amigdala,
una piccola struttura che si trova in profondità
ed è fondamentale per elaborare le
emozioni, e la corteccia cingolata rostrale
anteriore (rACC), una zona della corteccia
frontale che modula le emozioni e le motivazioni.
La rACC regola il traffico, facilitando
il lusso di emozioni e associazioni positive.
Più intensa era l’attività in queste regioni mentre
immaginava eventi futuri positivi e maggiore
era la comunicazione tra le due strutture.
Queste scoperte ci hanno particolarmente
affascinato perché proprio quelle
regioni, l’amigdala e la rACC, negli individui
depressi mostrano un’attività anormale.
Mentre le persone sane si aspettano che il
futuro sia leggermente migliore di quello
che poi sarà, quelle gravemente depresse
tendono a essere pessimiste, si aspettano
che le cose vadano peggio di come in realtà
andranno. Le persone leggermente depresse
sono invece più precise: vedono il mondo
com’è. In altre parole, in mancanza di un
meccanismo neuronale che genera un ottimismo
poco realistico, probabilmente tutti
sarebbero leggermente depressi.
Esiti negativi
Il problema delle aspettative pessimistiche,
come quelle delle persone clinicamente depresse,
è che hanno il potere di alterare il
futuro, e quindi di determinare esiti negativi.
In che senso le aspettative modificano la
realtà? Per rispondere a questa domanda,
una mia collega, la neuroscienziata cognitiva
Sara Bengtsson, ha ideato un esperimento
nel quale manipolava le attese positive e
negative di un gruppo di studenti prima di
metterli alla prova su compiti di tipo cognitivo
e osservava il loro cervello con la risonanza
magnetica funzionale. Per indurre
aspettative di successo, prima di cominciare
il test diceva agli studenti che erano intelligenti
e in gamba. Per ottenere l’effetto
contrario, gli diceva che erano stupidi e
ignoranti. Ha scoperto che gli studenti ai
quali aveva trasmesso un messaggio positivo
se la cavavano meglio.
Esaminando le scansioni, è emerso che
il cervello degli studenti rispondeva in modo
diverso anche agli errori che commettevano.
Quando l’errore veniva dopo le frasi
di incoraggiamento, c’era una maggiore
attività nella zona mediale anteriore della
corteccia prefrontale (una regione implicata
nelle attività di riflessione su se stessi e di
rievocazione dei ricordi). Quando invece
gli studenti si erano sentiti dire che erano
stupidi, dopo una risposta sbagliata non si
registrava nessun aumento dell’attività. Era
come se il loro cervello si aspettasse di far
male e non mostrasse alcun segno di sorpresa
o di conflitto quando sbagliava. A un
cervello che non si aspetta buoni risultati
non arriva il segnale: “Attenzione, risposta
sbagliata!”. Quindi non impara dai propri
errori e di solito non migliora con il passare
del tempo. Le aspettative si autorealizzano
alterando la performance e il comportamento,
e questo alla fine influisce su quello
che succederà in futuro. Ma spesso le aspettative
cambiano semplicemente il modo in
cui percepiamo il mondo senza alterare la
realtà stessa. Facciamo un esempio. Mentre
sto scrivendo, mi chiama un amico. È all’aeroporto
di Heathrow in attesa di salire su un
aereo per l’Austria dove sta andando a sciare.
Il volo è già in ritardo di tre ore a causa di
una tempesta di neve a destinazione. “Immagino
che sia una cosa positiva e negativa
al tempo stesso”, dice. Aspettare in aeroporto
non è certo piacevole, ma se oggi sta
nevicando domani scierà meglio. Il suo cervello
lavora per conciliare la seccatura di
essere bloccato all’aeroporto con il desiderio
di una bella vacanza.
Un volo cancellato non è una tragedia,
ma anche quando ci succede una cosa orribile
che non ci saremmo mai aspettati, cerchiamo
automaticamente conferma del
fatto che la nostra disgrazia in realtà è una
fortuna. Non ci aspettavamo di perdere il
lavoro, di ammalarci o di divorziare, ma
quando succede, cerchiamo il lato positivo.
Queste esperienze ci fanno crescere, pensiamo.
Forse in futuro troveremo un lavoro
più soddisfacente o una relazione più stabi-
le. –
Interpretare la sfortuna in questo modo
ci permette di concludere che le nostre
aspettative ottimistiche dopotutto erano
corrette, le cose sono andate per il meglio.
Come facciamo a trovare il lato positivo
di una disgrazia? Per rispondere a questa
domanda, io e due colleghi – il neuroscienziato
Ray Dolan e la neurologa Tamara Shiner
– abbiamo detto ai volontari sottoposti
alla scansione cerebrale di visualizzare una
serie di problemi di salute, da una semplice
frattura all’Alzheimer, e di valutare quanto
li consideravano gravi. Poi gli abbiamo
chiesto cosa avrebbero preferito se avessero
potuto scegliere. Rompersi una gamba o
un braccio? La gastrite o l’asma? Alla ine,
dovevano di nuovo fare una graduatoria
delle malattie. Qualche minuto dopo averne
scelta una, i volontari scoprivano improvvisamente
che quella scelta li spaventava
di meno. Per esempio, prima di sceglierla
tra altre disgrazie, consideravano
“terribile” avere una gamba rotta. Ma dopo
averla scelta, ci trovavano un aspetto positivo
e dicevano: “Se mi rompessi una gamba,
potrei starmene a letto a guardare la tv senza
sentirmi in colpa”. Dallo studio è emerso
anche che le persone percepivano in modo
positivo certi eventi negativi se li avevano
già sperimentati. Registrando l’attività cerebrale
mentre ripensavano a queste cose,
abbiamo scoperto che trovare il lato positivo
in una cosa negativa implica, ancora una
volta, uno scambio tra la corteccia frontale
e le regioni subcorticali che elaborano le
emozioni. Mentre pensavano a un infortunio,
come una gamba rotta, l’attività
dell’rACC modulava i segnali di una regione
chiamata corpo striato che valutava i pro
e i contro dell’evento, indirizzando l’attività
verso una valutazione positiva.
Sembra che il nostro cervello possieda la
pietra filosofale che ci permette di trasformare
il piombo in oro e ci aiuta a mantenere
un normale livello di benessere. È programmato
per attribuire il massimo valore alle
cose che ci succedono e per darci fiducia
nelle nostre decisioni. Questo vale non solo
quando siamo costretti a scegliere tra due
opzioni negative ma anche quando dobbiamo
scegliere tra due offerte di lavoro ugualmente
attraenti. Prendere una decisione
può essere difficile e faticoso ma, una volta
che l’abbiamo presa, succede qualcosa di
miracoloso. Improvvisamente giudichiamo
l’offerta che abbiamo scelto migliore di
quanto non la considerassimo prima e arriviamo
alla conclusione che in fondo l’altra
non era niente di eccezionale. Secondo il
sociopsicologo Leon Festinger, dopo aver
compiuto una scelta valutiamo di nuovo
tutte le opzioni per ridurre la tensione creata
dalla difficoltà di decidere tra cose ugualmente
desiderabili.
In un altro studio condotto nel 2009 con
Ray Dolan e Benedetto De Martino, sempre
usando la scansione cerebrale, abbiamo
chiesto ai volontari di immaginare di andare
in vacanza in 80 posti diversi e di valutare
quanto pensavano che sarebbero stati felici
in ognuno di essi. Poi gli abbiamo chiesto di
scegliere una destinazione tra due che avevano
valutato nello stesso modo. Parigi o il
Brasile? Alla fine gli abbiamo chiesto di valutarle
di nuovo tutte. Qualche secondo
dopo aver scelto tra due destinazioni, i soggetti
davano più valore a quella scelta e meno
a quella scartata. Le immagini del cervello
rivelavano che il cambiamento avveniva
nel nucleo caudato, un ammasso di
cellule che fa parte dello striato. È stato dimostrato
che il caudato elabora le gratificazioni
e ne segnala l’arrivo. Se pensiamo di
ricevere lo stipendio o di mangiare un delizioso
dolce al cioccolato, il caudato lo annuncia
ad altre parti del cervello: “Preparatevi,
è in arrivo qualcosa di buono”. Una
volta ricevuta la gratificazione, il suo valore
viene subito aggiornato. Se allo stipendio è
stato aggiunto un bonus, questo maggior
valore si rifletterà nell’attività dello striato.
Se il dolce ci ha deluso, il suo minor valore
verrà subito registrato, così la prossima volta
avremo meno aspettative. Nel nostro
esperimento, dopo che era stata presa una
decisione tra due destinazioni, il nucleo
caudato aggiornava subito il segnale. Prima
di scegliere tra la Grecia e la Thailandia, segnalava
“sto pensando a due bei posti”. Ma
dopo aver scelto la Grecia, segnalava “sto
pensando a un posto meraviglioso” riferito
alla Grecia e solo “sto pensando a un bel posto”
per la Thailandia.
È vero che qualche volta ci pentiamo o
rimaniamo delusi dalle nostre scelte. Ma
nell’insieme, gli attribuiamo più valore e ci
aspettiamo che ci diano più piacere. Questa
conferma delle nostre decisioni ci aiuta a
trarre maggior piacere da scelte che in realtà
potrebbero essere neutre. Senza questo
meccanismo, la nostra vita sarebbe piena di
rimpianti. Abbiamo fatto la cosa giusta? Faremmo
meglio a cambiare idea? Resteremmo
bloccati, soprafatti dall’indecisione e
incapaci di andare avanti. Ma com’è possibile
che le persone continuino a vedere tutto
rosa anche quando è così facile trovare
informazioni scoraggianti? Solo di recente
siamo riusciti a risolvere questo mistero osservando
il cervello delle persone mentre
elabora informazioni positive e negative sul
futuro. E quello che abbiamo scoperto è
sorprendente: quando apprendiamo qualcosa,
i neuroni registrano fedelmente le
informazioni che possono incoraggiare l’ottimismo
ma non quelle inaspettatamente
indesiderabili. Quando sentiamo parlare di
una storia di successo come quella di Mark
Zuckerberg, il nostro cervello prende nota
della possibilità che un giorno anche noi
diventeremo immensamente ricchi. Ma se
scopriamo che le probabilità di divorziare
sono quasi il 50 per cento non pensiamo che
il nostro matrimonio sia destinato a fallire.
L’enigma
Perché il cervello è programmato in questo
modo? La nostra ipotesi è che l’ottimismo
sia stato selezionato dall’evoluzione proprio
perché, in genere, le aspettative positive
aumentano le probabilità di sopravvivenza.
Gli ottimisti vivono più a lungo e sono
più sani, la maggior parte degli esseri
umani tende a essere ottimista e l’ottimismo
è legato a geni specifici: tutte queste
ricerche sembrano confermare la nostra
teoria. Ma l’ottimismo è anche irrazionale e
può produrre risultati indesiderati. A questo
punto il problema è: come facciamo a
continuare a sperare, quindi a essere ottimisti,
e al tempo stesso a difenderci dalle
insidie della vita? Sono convinto che una
delle soluzioni sia la conoscenza. La comprensione
dei nostri pregiudizi non è innata.
Le illusioni del cervello devono essere
individuate con l’osservazione scientifica
nel corso di esperimenti controllati e poi
rese note a tutti. Una volta capito che l’ottimismo
è un’illusione, sapremo difenderci.
La buona notizia è che questa consapevolezza
non infrange del tutto le illusioni. Il
bicchiere rimane mezzo pieno, e possiamo
trovare un giusto equilibrio: pensare che
sicuramente non ci ammaleremo ma sottoscrivere
lo stesso un’assicurazione sulla salute,
essere certi che il sole splenderà ma
prendere l’ombrello prima di uscire.
Non si sa mai.
Fonte: Internazionale