Nessuno, o quasi, si è salvato dalla conquista manu militari dei centri storici delle città (e spesso anche dei piccoli comuni e persino dei borghi) da parte di un nutrito esercito di conquistatori degli spazi, di qualsiasi dimensione, con il vessillo del cibo, in tutte le sue declinazioni più attraenti, ma talvolta anche più devastanti. E non parliamo solo di ristoranti, trattorie e pizzerie, ma anche dell’intera catena mangereccia, che circonda il collo dei turisti-visitatori presi per la gola, con negozi alimentari “tipici” (ovviamente in questo caso l’aggettivo è impiombato all’amo al quale il cliente deve abboccare),street food ( talvolta velenoso più che genuino e autentico come viene presentato), pizzicagnoli truccati con tutte le maschere del luogo, da Pulcinella a Pantalone, gastronomie, bistrot, e potremmo continuare a lungo con l’elenco dei neo colonizzatori di interi quartieri, piazze, strade o aree urbane. Luoghi deturpati che, per meccanica convenzione, ancora chiamiamo Centri storici, ma in realtà dovremmo definire Centri per mangiare. Di tutto, e di più.
Il cibo si è letteralmente mangiato le città, come recita il titolo di un bel libro che declina la parola-chiave di questa invasione (Foodification di Paolo Tessarin e Marco Perucca, edizioni Eris), piegandole alle sue leggi prima che ai suoi odori, al suo consumo compulsivo e ossessivo, come se mangiare qualsiasi cosa, tutto declinato secondo le tipicità del territorio, fosse la cosa più importante e utile da fare, prima ancora della visita a una chiesa, a un museo, a un luogo magico della Bella Italia.
Si è ripetuto, in pochi anni, il film dell’orrore che abbiamo visto con lo sventramento dei centri storici attraverso la sostituzione reiterata dei negozi di vicinato, delle piccole botteghe artigiane, con i grandi marchi del commercio globale, con i negozi alla moda, di tendenza, come si dice nel gergo commerciale degli invasori. Nessuno, tra migliaia di amministratori locali troppo presi dalla loro sete di carriera per la quale il cibo è una fabbrica di consensi, si è opposto a questo tsunami che ha alterato l’equilibrio anche sociale delle città, rendendo le zone più centrali, e spesso con più storia alle spalle, anche le meno vivibili per vecchi e nuovi residenti.
Il cibo a profusione, senza limiti e senza regole (avete presente il fenomeno del tavolino selvaggio?) ha trasformato l’estetica dei luoghi, parallelamente alla loro funzione, contribuendo così, come una betoniera che gira a folle velocità, a impastare in un unico miscuglio tutti gli elementi della deriva delle città: overtourism, caro-alloggi e carovita, perdita di identità, sporcizia, degrado, violenza diurna e notturna.
Un tempo, quando nei centri storici apriva un McDonald’s , o soltanto ci provava, si facevano marce, comitati, proteste, manifestazioni. Adesso un coro silenzioso accompagna i grandi marchi del lusso che non sapendo più dove e come fare soldi si sono tuffati anche nella ristorazione urbana, acquistando locali con nomi storici per trasformarli in nuovi e anonimi hub del cibo griffato.
L’avanzata urbana di questa sottocultura gastronomica, con le sue truppe di invasori di vario rango e grado che tutto riescono a omologare e appiattire, anche i menù spacciati per tradizionali, ha avuto abili trombettieri in quella accozzaglia di cuochi trasformati prima in chef, ovvero maestri di cucina, e poi in guru del nulla, con l’orgia quotidiana dei loro programmi televisivi, uno più inutile dell’altro.
La legge degli ascolti ha dato una bella spinta al cibo che si è mangiato le città, come anche il neolinguaggio nazionalpopolare (che parliamo tutti, più e meglio dell’italiano che tendiamo a dimenticare), scolpito nel dizionario intitolato La lingua dell’ossessione per il cibo. Di cibo chiacchieriamo sempre e ovunque, h24, a tavola mentre lo ingoiamo, come in salotto mentre lo guardiamo seguendo una puntata di MasterChef, in privato come in pubblico; ne siamo dominati, prima che ossessionati, come se non ci fossero altri argomenti di conversazione, magari più interessanti e divertenti.
E allora, alziamo i calici e con il drink autolesionista, da Titanic in versione urbana, brindiamo (spiluccando cibo) alla dissoluzione di uno spazio che un tempo chiamavamo centro storico, ma che di storia ormai ha soltanto i resti, o meglio: gli avanzi.
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