Donne in Arabia Saudita: possono usare bici e auto ma sempre con il permesso degli uomini

Una falsa modernizzazione. In bici solo in alcune aree: parchi, giardini e cortili. In auto mai senza un parente

ARABIA SAUDITA DONNE

Omaima Al Najjar in Italia, in Europa, nel mondo occidentale è un’eroina. Ha guidato, con un parziale successo, la campagna per il diritto alla guida delle donne in Arabia Saudita, ed è diventata una delle più importanti blogger del mondo arabo. E’ stata arrestata e minacciata, e dunque per i sauditi è poco meno che una criminale, per noi occidentali un’eroina.

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DIVIETO DI GUIDA DONNE ARABIA SAUDITA

Se partiamo da una storia come questa, ma ne potrei citare davvero tante, diventa molto chiara la distanza, l’abisso, che ci separa dall’universo islamico rispetto alla condizione e al riconoscimento dei diritti delle donne. Pensate che questa battaglia per il diritto alla guida è iniziata più di trent’anni fa
e c’è voluto un trentennio per arrivare a un secondo passo (il primo è stato il diritto a guidare la bicicletta, introdotto nel lontano 2013). Vittoria parziale, dicevo, in quanto comunque le donne hanno bisogno di un permesso del marito, di un padre, di un figlio, cioè di un uomo, per iscriversi alla scuola guida e prendere la patente. E una volta che riescono a ottenere la possibilità di guidare l’automobile devono farlo indossando l’abaya, la lunga veste nera che copre fino ai piedi (obbligo da osservare anche per andare in bicicletta a 50 gradi all’ombra), con tutti i rischi che ne conseguono per la scarsa agilità nel muovere i piedi. Nonostante questa assurde restrizioni, la decisione del principe ereditario Mohammed Bin Salman, figlio prediletto di re Salman, di consentire la guida dell’auto alle donne,  è stata presentata in Occidente come “una svolta storica“. Una svolta? Soltanto perché l’Arabia saudita finisce di essere l’unico paese al mondo che ancora applica questa incredibile discriminazione?

DONNE ARABE E BICICLETTA

Anche il divieto per le donne dell’Arabia Saudita di andare in bici è stato rimosso nel 2013. Ma anche in questo caso con una finta modernizzazione, più formale che sostanziale. I limiti sono tanti. Innanzitutto la donna deve essere, come nel caso dell’auto, accompagnata da un uomo. Non può andare in bicicletta da sola. In secondo luogo, i suoi margini di movimento sono molto ristretti. Può andare in bici only around circle, solo attorno al cerchio. Ovvero facendo una sorta di girotondo: nei parchi, nei cortili e nei giardini.

PERCHE’ LA BICI ALLE DONNE ARABE FA PAURA

Perchè dare la possibilità di andare in bici, alle donne arabe, fa tanta paura? Le risposte sono più facili di quanto si possa immaginare. E’ un gesto e un simbolo di libertà, intollerabile per regimi che non conoscono la parola democrazia. Non piace il movimento della donna, mentre guida la bici: non è un segno di sottomissione. Le donne in bici muovono le gambe e non le hanno, come al solito, chiuse, coperte e immobili. in bicicletta, le donne sono tutte uguali, e anche questo per la civiltà araba è inaccettabile.

CONDIZIONE DELLA DONNA IN ARABIA SAUDITA

La verità è che siamo talmente assuefatti alle violenze che le donne arabe subiscono da confondere piccoli passi avanti con autentiche “svolte”. E neanche ci rendiamo più conto di quanto sia incolmabile questa diversità non religiosa, non politica, non sociale, ma di civiltà, che ci separa dai paesi dell’islam. Omaina, e come lei tante altre attiviste, è finita in carcere solo perché chiedeva la possibilità di guidare l’automobile. E il principe ereditario ha ceduto  per ottenere un miglioramento della sua reputazione, nel suo paese e nel mondo, grazie a questa presunta e di fatto irrilevante “svolta”. La monarchia saudita è in grave difficoltà per gli scandali che rischiano di travolgerla, per una corruzione fuori controllo e per un’impopolare guerra in Yemen. Solo per questo si lancia del fumo negli occhi con atti liberali, come l’apertura alla guida delle donne.
In Arabia Saudita, e in generale nel mondo islamico, il ruolo della donna resta incardinato e crocifisso nel “sistema del guardiano“. La donna deve sottostare a una serie infinita di divieti e di autorizzazioni da parte dell’uomo che la riducono a una schiava, a un essere inferiore. Una donna non può aprire un conto in banca senza il permesso dell’uomo. E senza la sua autorizzazione non può viaggiare all’estero e non può ottenere il passaporto. Ovviamente non può sposarsi o divorziare di sua volontà. Non può mettere piede in un ristorante e non può sedere in qualsiasi luogo pubblico in compagnia di uomini. Non vi sembrano vincoli da schiavitù? Da totale sottomissione?
Quanto a noi, quanto al sacrosanto dialogo con altre religioni e altre civiltà, non possiamo prendere atto della diversità dei punti di partenza e delle battaglie in corso. Mentre in Arabia Saudita l’autorizzazione alle donne di guidare è considerata “una svolta rivoluzionaria” e per tutto il resto continua a valere il “sistema del guardiano”, in Occidente stiamo finalmente dando qualche lezione ( anche con il carcere) agli uomini che ricattano sessualmente le donne  o provano a esercitare anche solo una violenza psicologica nei loro confronti. E’ in campo un movimento globale su questo versante, come nel caso della parità di stipendi e di condizioni di lavoro tra uomo e  donna, che in alcuni paesi, mi riferisco in particolare all’Islanda, è ormai prevista per legge. Queste sono le nostre battaglie, mentre Omaima è diventata un’eroina per essere riuscita a guidare una lotta di decenni per la guida dell’auto, e prima di lei un’altra donna, che non può neanche pronunciare il nome per non essere arrestata, si è battuta a favore dell’uso della minigonna. Ovviamente senza alcun successo, se non quello di avere fatto pura testimonianza.

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KHULOOD

Una piccola storia che da sola ci racconta una grande distanza, un abisso, di civiltà. Di emancipazione e di visione della vita, non solo del costume. Tutto ruota attorno alla minigonna, e al gesto, considerato molto più di un reato in gran parte del mondo arabo, di indossarla in modo libero e aperto da parte di una giovane ragazza. Un’adolescente che potrebbe essere una nostra figlia o una nostra nipote. Una ragazza che, per indossare ciò che noi specie in estate vediamo tutti i giorni a tutte le ore, la minigonna, appunto, si è dovuta prima nascondere con un nickname, “Khulood”, e poi giustificarsi con le autorità che intanto l’hanno individuata e fermata. A Ushayqir, 150 chilometri da Riad, nel cuore del mondo arabo e dell’islam.

Il video di “Khulood” in minigonna e t-shirt che gira da sola (in alcuni paesi arabi le donne di solito devono avere un permesso scritto o essere accompagnate da un parente maschio per andare in giro) ovviamente è diventato virale, e la ragazza rischia guai seri. Da qui una domanda: non ci basta tutto ciò per capire bene quanto la donna sia davvero mortificata e penalizzata nel mondo arabo? E quanto questa distanza renda difficile il dialogo, la comunicazione, la relazione nel rispetto reciproco delle diversità, con l’universo arabo-islamico? Un universo dove la ricchezza, il ruolo complementare in assoluta parità, della donna, non sono riconosciuti e sono semplicemente sprecati.

DONNE IN ARABIA SAUDITA

Quando mi occupai, da giovane cronista, di ricostruire la storia del costume attraverso l’uso e la diffusione della minigonna, scoprii che le prime, nel mondo occidentale ed esattamente in Francia, apparvero alla fine dell’Ottocento. E furono alla base del movimento di emancipazione femminile intitolato Lega per le gonne corte. La grande cantante e ballerina Josephine Baker fece scandalo, ma nessuno osò arrestarla o fermarla, esibendosi in minigonna. Negli anni Venti, del Novecento, mentre oggi siamo ormai agli anni Venti del Duemila.

In sintesi: questo oscurantismo sulla minigonna non è un segnale irrilevante, ma la prova più concreta e tangibile di un’arretratezza e di un conto in sospeso con la modernità, e con i valori della modernità (dei quali l’assoluta parità tra uomo e donna è un paradigma centrale), che nel mondo arabo-islamico attraversa tre secoli. Ottocento, Novecento e Duemila.

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DIRITTI DELLE DONNE IN ARABIA SAUDITA

Non ricostruisco questo percorso per arrivare alla conclusione che dobbiamo andare alla guerra di religione, e non solo, e di costume, di stili di vita, con arabi e islamici. Né vorrei essere frainteso su un punto: tutto ciò non deve mettere in discussioni i nostri principi, i nostri valori, anche questi frutto di un’emancipazione e di un passo avanti nella modernità, di accoglienza e di integrazione rispetto agli immigrati, rifugiati o economici che siano.

Però non possiamo fare gli ipocriti e i farisei, anche a una guerra (lanciata dall’Isis) che intanto è in corso: quella minigonna, che la piccola e tenera “Khulood” si è permessa di indossare e mostrare in pubblico, non è affatto mini, è un muro che ci separa. E per abbatterlo ci vorrà tempo, ammesso che sia possibile: intanto, con tutti i nostri limiti e con tutti i nostri orrori (pensate ai femminicidi in Italia), teniamoci stretto e rivendichiamolo, il valore assoluto della libertà e della parità di genere che spetta, senza se e senza ma, alla donna. Ovunque.

Credit immagine di copertina: The Post Internazionale (TPI)

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