Perché uscire dal carbone non è facile

La spiegazione completa e documentata di una professoressa dell'Università di Pavia, molto esperta sui temi dell'energia

Perché uscire dal carbone non è facile
di Stefania Migliavacca
Stefania Migliavacca è professoressa di Microeconomia presso l’Università di Pavia e ha pubblicato questo testo, molto completo e  documentato sulla Newsletter Rienergia
 
Spesso si parla della transizione energetica come di un processo a “due velocità”, con l’Occidente avanzato che corre e un Sud globale che arranca. Ma la realtà è ben più complessa e sfaccettata: la transizione è un mosaico a mille velocità, disomogeneo sia tra Paesi che all’interno dei singoli blocchi geopolitici.

Il caso del carbone è emblematico. La sua traiettoria contraddittoria – in netto calo in alcune aree, in crescita in altre – non solo riflette questa eterogeneità, ma la amplifica. Il carbone è infatti la fonte fossile più inquinante per unità di energia prodotta: secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, emette in media 946 gCO₂/kWh, contro i circa 443 gCO₂/kWh del gas naturale.

Per questo, la sua eliminazione è condizione necessaria, sebbene non sufficiente, per il rispetto degli obiettivi dell’Accordo di Parigi.

La domanda di carbone nel mondo

Nell’area OCSE si registra una tendenza chiara: la domanda di carbone è in declino strutturale. Secondo l’AIE, tra il 2015 e il 2023 il consumo di carbone nell’UE è calato del 35%, negli Stati Uniti di circa 50%, grazie all’effetto combinato di tre dinamiche: la diffusione delle rinnovabili (in particolare solare ed eolico), la sostituzione con gas naturale, le politiche di carbon pricing e normative ambientali più stringenti.

Nel 2024 il Regno Unito ha spento l’ultima centrale a carbone, entrando a far parte del gruppo di 13 Paesi OCSE che hanno già completato il phase-out, pari a circa un terzo dei membri. Secondo la roadmap, altri 13 Paesi OCSE – tra cui Canada, Cile, Nuova Zelanda e Spagna – dovrebbero completare l’uscita entro il 2030. Ma non mancano le ambiguità:

Nel 2024 il Regno Unito ha spento l’ultima centrale a carbone, entrando a far parte del gruppo di 13 Paesi OCSE che hanno già completato il phase-out, pari a circa un terzo dei membri. Secondo la roadmap, altri 13 Paesi OCSE – tra cui Canada, Cile, Nuova Zelanda e Spagna – dovrebbero completare l’uscita entro il 2030. Ma non mancano le ambiguità:

  • 5 Paesi OCSE (Messico, Australia, Turchia, Giappone e Colombia) non hanno fissato una data per l’abbandono del carbone;
  • La Germania, pur con forti investimenti nelle rinnovabili, ha prorogato la chiusura delle centrali a carbone al 2038 a causa della crisi del gas russo;
  • L’Italia sta discutendo la proposta di spostare il phase-out dal 2025 al 2038, allineandosi con la Germania.

La transizione, anche in Occidente, non è lineare né priva di compromessi.

La crescita della produzione di carbone in Asia

Dall’altra parte del mondo, la narrazione cambia. In Asia, il carbone non è affatto in ritirata, ma continua ad espandersi. Secondo il rapporto Boom and Bust Coal 2025 (Global Energy Monitor), nel solo 2024, Cina e India hanno rappresentato il 92% di tutta la nuova capacità a carbone proposta. La Cina detiene ormai il 55% della capacità globale a carbone esistente e il 69% di quella in costruzione. Eppure, ridurre questa dinamica a un disinteresse ambientale sarebbe una semplificazione. La resilienza del carbone in Asia dipende da molteplici fattori:

  • Sicurezza energetica: in un contesto globale instabile, il carbone nazionale garantisce approvvigionamento sicuro a basso costo;
  • Uso industriale: non tutto il carbone è destinato alla generazione elettrica; Cina e India lo impiegano ampiamente nei processi industriali (acciaio, cemento);
  • Funzione di riserva: molte nuove centrali sono progettate per operare a basso fattore di carico, come backup per le rinnovabili intermittenti;
  • Capacity payments: in alcune province cinesi, meccanismi di compensazione per la disponibilità degli impianti (non per la produzione) hanno incentivato la costruzione di nuova capacità a carbone, come documentato da Carbon Brief.

Anche l’AIE, nel report Electricity 2024, riconosce che il carbone sta evolvendo in alcune economie asiatiche da fonte primaria a fonte di bilanciamento del sistema. Ulteriore conferma di questo trend è il calo del load factor: si stanno costruendo nuove centrali (aumentando i GW) ma non le si usano a pieno regime (i TWh non crescono allo stesso ritmo), perché le rinnovabili assumono una quota sempre maggiore della produzione totale. Questo significa che le nuove centrali a carbone vengono spesso costruite per fungere da riserva e garantire la stabilità della rete in un sistema con una crescente penetrazione di fonti intermittenti.

Centrali a carbone riattivate

La narrativa binaria “Occidente virtuoso vs Asia inquinante” non regge alla prova dei dati. Le velocità diverse non sono solo tra continenti, ma anche all’interno degli stessi blocchi.

In Europa occidentale, la Germania resta ancora uno dei maggiori consumatori di carbone in UE (circa 1/3 del totale, seguita dalla Polonia). In Asia, troviamo alcuni segnali positivi: l’Indonesia, il maggiore esportatore mondiale di carbone termico, ha annunciato un piano graduale di phase-out al 2040 mentre il Bangladesh ha cancellato oltre 10 GW di progetti a carbone negli ultimi 4 anni, come riportato dall Institute for Energy Economics and Financial Analysis (IEEFA).

La transizione, insomma, è un puzzle di traiettorie nazionali, condizionate da risorse, tecnologia, capacità istituzionale e pressioni interne.

Il carbone è un esempio lampante delle asimmetrie strutturali delle politiche climatiche internazionali. Quando i Paesi ricchi riattivano centrali a carbone per motivi emergenziali (come nel caso della guerra ucraina), si parla di scelte temporanee e necessarie. Ma quando Paesi asiatici costruiscono nuove centrali per sostenere la crescita o garantire l’accesso all’energia, spesso vengono accusati di sabotare il clima.

Una analisi del World Resource Institute sui 10 Paesi che più rapidamente sono riusciti ad abbandonare il carbone, ha individuato alcuni dei fattori che accomunano queste esperienze di successo: la gran parte di questi Paesi rientra nella categoria ad alto reddito (secondo la definizione della Banca Mondiale), ha una popolazione inferiore ai 50 milioni di persone, una domanda elettrica che cresce meno della media globale, non dispone di carbone nazionale e il parco centrali ha un’età media vicina alla dismissione. Queste non sono evidentemente caratteristiche che possiamo ritrovare in Cina o in India; tuttavia, molti altri Paesi potrebbero riconoscersi in queste storie virtuose e seguirne l’esempio (Giappone, Polonia, Corea del Sud, Vietnam)

Nonostante le contraddizioni, il panorama non è del tutto cupo. L’AIE, nel suo Coal Market Update – Mid-2025, segnala che la domanda globale di carbone potrebbe aver raggiunto il picco ed essere vicina al plateau (ipotesi ripresa anche da Wood Mackenzie).

Il carbone è solo uno dei tanti volti della transizione energetica, ma forse è tra i più rivelatori. Mostra le tensioni tra sviluppo e sostenibilità, tra sicurezza energetica e decarbonizzazione, tra Nord e Sud del mondo. Non ci sono scorciatoie né soluzioni semplici. Ma una cosa è certa: senza un impegno condiviso e differenziato, che riconosca le diverse esigenze e responsabilità dei Paesi, la transizione rischia di essere più lenta, più diseguale e meno efficace.

Investimenti energetici globali

Il carbone non è ancora tramontato. Ma il suo crepuscolo è visibile all’orizzonte: solo perché una transizione così rapida e di così vasta portata non si è mai verificata prima, non significa che non sia possibile. E i soldi sembrano andare in una direzione chiara, lo dimostra questo grafico della AIE sulla destinazione degli investimenti energetici negli ultimi 10 anni.

Evoluzione degli investimenti energetici globali (mld doll.)

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Il mondo avrà bisogno di sforzi urgenti e di una stretta cooperazione per realizzare questo cambiamento, ma la fine del carbone è più vicina che mai. Deve esserlo.

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