
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA
Al 45esimo piano del nuovo tetto
d’Europa, Renzo Piano scruta compiaciuto
l’orizzonte. Siamo a metà
della torre, ma già Londra rimpicciolisce
sotto i nostri occhi e i confini
della capitale appaiono nitidi, contornati dal
verde della campagna. «Le città devono smettere
di crescere a dismisura», dice l’architetto. «Devono
implodere anziché esplodere. Invece di allargarsi
a macchia d’olio, crescere in altezza e immaginazione
». Come fa il suo nuovo grattacielo,
The Shard, La Scheggia, 310 metri, 87 piani, una
piramide «che accarezza le nuvole, sparisce in
cielo, si smaterializza, riflettendo nelle vetrate i
colori e gli umori di Londra», afferma il suo creatore.
Sarà pronto a maggio, inaugurato in autunno
e ben rodato per le Olimpiadi 2012, quando la
metropoli presenterà un nuovo volto al mondo
e il suo grattacielo più alto ne sarà il simbolo. «I
grattacieli di soli uffici, che a sera si svuotano, sono
luoghi tristi, misteriosi», osserva lui, casco
protettivo, giacca catarinfrangente, stivaloni di
gomma, passando in rassegna i 1200 operai che
lavorano giorno e notte per completare questo
gigante trasparente. «Invece qui abbiamo voluto
costruire una città verticale, dove si mescolano
uffici, appartamenti, albergo, ristoranti, osservatorio
per il pubblico, ventimila persone lo
useranno e abiteranno, rendendolo vivo».
Ècostato un miliardo
di sterline (1 miliardo
e 200 milioni
di euro), «ma quando
una città ti dà
qualcosa, devi ridare indietro
qualcosa alla città, in cambio
della licenza per il grattacielo
gli investitori hanno contribuito
centinaia di milioni di
sterline per risanare il quartiere
circostante, rifacendo
strade, giardini, trasporti
pubblici». Il quartiere è London
Bridge, vecchia zona dei
docks, un tempo teatro di Jack
lo Squartatore, in procinto di
diventare una nuova faccia
della Londra 21esimo secolo.
Eppure il principe Carlo critica
le brutture del modernismo,
qualcuno sostiene che lo
Shard toglie spazio a una storica
icona come la cattedrale
di St. Paul. L’architetto sorride:
«Conosco il principe e ha
ragione a dire che la modernità
ha eretto tanti mostri. Anche
il passato, se è per questo.
Ma non è una buona ragione
per non costruire più nulla,
per non cercare soluzioni valide
e affascinanti. Ci fu gente
che criticò anche la cattedrale
di St. Paul, quando la costruirono,
e adesso è amata da tutti
perché è un capolavoro». La
guarda ammirato, lì di fronte
a noi, dal 45esimo piano. «Vede?
Non è scomparsa, non le
facciamo ombra. Al contrario,
questa torre porta intensità
al panorama, porta scambio
tra passato e presente». Allora
Londra è un modello per
le città future? «È un modello
perché è una moderna
torre di Babele,
dove si riuniscono
tutte le
genti della terra e
riescono a comprendersi,
integrarsi.
Ci sono decine
di nazionalità
anche fra i
muratori dello
Shard, anch’essi
rappresentano
un modello».
E l’urbanistica
di domani? «Deve
smettere di costruire
periferie, altrimenti un
giorno tra Milano e Torino
non ci sarà più neanche un
metro di campagna. E deve
umanizzare le periferie esistenti,
mica si possono far
scomparire, tantomeno lasciarle
al degrado». Come?
«Creando spazi pubblici che
le rivitalizzino, senza scadere
nel monumentale e nel retorico,
aprendo una discussione
tra la modestia del vivere e
l’orgoglio urbano». Un esempio?
«L’Auditorium che abbiamo
fatto a Roma, prima
era un parcheggio, in una zona
praticamente morta, ora è
rinata. Stringere la cintura urte
bana, anziché allargarla all’infinito.
Cercare vie nuove,
non solo in verticale ma con
una visione di quel che serve
alla gente: musei, biblioteche,
luoghi di socialità condivisa».
Ma la maggioranza dell’umanità
è urbanizzata: come evitare
che le città diventino formicai?
«Per cominciare obbligando
la gente a prendere i
mezzi pubblici e creando una
rete di trasporti funzionante.
Lo Shard ha solo 42 posti macchina.
Perché passa di fianco
a una stazione ferroviaria,
due linee della metropolitana,
venti di autobus. All’auto
bisogna rinunciare». L’altro
dilemma del futuro è l’energia,
come far funzionare le
nostre città senza inquinamento
e sprechi? «Ci sono ricerche
di lunga durata, in
campo spaziale, medico,
energetico, da cui nascono
nuove invenzioni. Lo stesso
vale con l’architettura. Un
grattacielo come questo, pensato
per sfruttare energia solare
e consumare meno, è un
passo avanti verso un futuro
sostenibile».
Torniamo in ascensore, su
e giù: si tappano
le orecchie,
come in aereo.
«In cima
metteremo
un luogo di
meditazione
multiconfessionale,
luogolaico di raccoglimento e silenzio
per tutti. Per far affiorare le
affinità globali, le stesse che
devono emergere nella grande
città che sta intorno al grattacielo.
Perché venire quassù
è anche un’esperienza metafisica,
è come guardare da una
terrazza panoramica le tracce
della vita». Linguaggio poetico,
architetto. «C’è un misto di
pragmatismo e poesia nel
mio mestiere. La scienza di
costruire ripari per l’essere
umano, ma anche l’arte di dare
una risposta ai sogni umani.
Bisogni pratici e anche
emozione. Un mestiere che
affonda nell’alba dell’uomo,
cacciatore, contadino e costruttore.
Il “male della pietra”,
come mio padre chiamava
l’architettura».
Renzo Piano è il più prolifico
architetto del mondo, vincitore
del Pritzker, il Nobel
dell’architettura, nella sua
lunga carriera ha disegnato il
Centro Pompidou a Parigi e la
sede del New York Times a
Manhattan, ha fatto musei,
sale concerto, aeroporti, a
Berlino, Sidney, Osaka. Ora,
mentre finisce il grattacielo
londinese, è già impegnato
con altri due progetti, il campus
della Columbia University
a New York e la nuova biblioteca
di Atene.
Che consiglio darebbe a un
giovane architetto, a chi seguirà
le sue orme per disegnare
la città futura? «Avere buoni
maestri e poi mollarli, ribellarsi,
il metodo migliore di trovare
se stessi. Non fidarsi dell’accademia,
avere il coraggio
di rischiare, perché progettare
è sempre un’avventura dello
spirito. Infine imparare a
guardare nel buio, accettare
di restare sospesi
tra ciò che ricordi,
che sai e che
puoi scoprire; tra
la memoria e l’oblio,
come scriveva
Borges. Accettare
di vivere
in uno stato di
ansia, perché solo
dall’ansia nascono
creatività,
sorprese, nuova
vita». Vale per il
suo mestiere, architetto,
ma anche
per molto altro,
per le relazioni umane,
per l’amore? «Vale per tutto e
naturalmente anche per l’amore.