Nuova povertà: adesso spaventa anche i ricchi. A Davos si fanno i conti con un mondo troppo disuguale

Ottanta plutocrati controllano la metà della ricchezza di tutta la popolazione. Uno squilibrio insostenibile, che mette il pianeta a rischio rivolta sociale.

CRISI ECONOMICA E NUOVE POVERTÀ –

I ricchi non piangono, ma si preoccupano per i troppi poveri. Il titolo, vago e generico, del World Economic Forum di Davos, «Il nuovo contesto globale», non deve trarre in inganno: i potenti della Terra, leader della politica, della finanza e dell’industria, conoscono bene la rotellina dell’ingranaggio saltata con l’esplosione della Grande Crisi. Vedono un mondo sempre più diseguale, ad altissimo rischio di instabilità, e quindi più difficile da governare. Questa è la paura che aleggia, come una gigantesca nuvola grigia, tra le montagne della Svizzera.

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Una polarizzazione insostenibile. Il «contesto globale» è dominato da 80 plutocrati che, insieme, controllano una ricchezza pari alla metà di quella posseduta dall’intera popolazione del pianeta. Erano 388 nel 2010, e dall’inizio della Grande Crisi la loro liquidità è raddoppiata. Questa concentrazione di risorse ha significato lo smottamento del ceto medio, presidio di benessere diffuso e di stabilità delle società occidentali. Per arginare la deriva dell’impoverimento globale non resta che una politica di redistribuzione dei redditi, innanzitutto attraverso la leva fiscale. Ed è quello che adesso Barack Obama, con le spalle forti di un’economia in netta ripresa (il pil americano nel 2015 aumenterà quasi del 4 per cento) e di una disoccupazione ai minimi storici (sotto la soglia critica del 6 per cento), sta tentando di fare. Come? Con una stangata fiscale ai redditi più alti, che dovrebbe valere 320 miliardi di dollari di entrate pubbliche in dieci anni, e con sgravi e detrazioni per i redditi medio-bassi, a partire dai 3mila dollari l’anno destinati a ciascun figlio. L’incognita, per Obama, a questo punto è l’ostilità del Congresso, dove il presidente è in minoranza.

L’economia rallenta. Ma le politiche redistributive, che saranno uno dei temi centrali del meeting di Davos, sono più facili quando la nave va e la torta di dividere cresce, come nel caso degli Stati Uniti. Al contrario, il Fondo monetario internazionale ha appena rivisto al ribasso (meno 0,3 per cento) le previsioni sulla crescita dell’economia globale. L’Europa è avvitata in una spirale di recessione e deflazione, con oltre venti milioni di disoccupati e con il potere d’acquisto delle famiglie in caduta libera: la paura e l’incertezza bloccano consumi e investimenti. Anche la Cina è in frenata, con il peggiore tasso di crescita degli ultimi 24 anni, e tutte le economie emergenti, un tempo motori dello sviluppo, sono in affanno.  Siamo lontanissimi da quella «nuova normalità» che proprio a Davos, lo scorso anno, era stata annunciata come imminente.

Il petrolio e le monete. Un’Europa anemica e incompiuta, senza una reale unità politica, appare rassegnata  a giocare la partita del «contesto globale» solo con le armi della politica monetaria, peraltro molto controversa, e dei dividendi per il calo del petrolio. In realtà i mercati sembra che abbiano già scontato il prossimo intervento della Banca centrale europea, con un massiccio (?) acquisto di titoli pubblici, mentre una boccata di ossigeno all’industria esportatrice sta arrivando dalla svalutazione dell’euro. Troppo poco.  Inoltre, difendere un livello di cambio in queste condizioni, come ha dimostrato il recente boom del franco svizzero, è di fatto impossibile nel medio e lungo termine. La verità è che la ripresa americana è stata sì favorita dalle iniezioni di liquidità della Federal Reserve, ma ha trovato la sua spinta vitale nei giganteschi investimenti pubblici (dal settore dell’auto all’energia, dalle infrastrutture all’industria high-tech) e nell’innovazione. Un esempio? Nella classifica appena pubblicata sul numero dei nuovi brevetti depositati negli Stati Uniti, ai primi posti compaiono innanzitutto grandi gruppi americani: solo l’Ibm, nel 2014, ne ha depositati 7 al giorno.  Quanto al petrolio, il vantaggio del suo prezzo low cost (mezzo punto di pil per l’Italia) viene considerato da tutti i profeti  riuniti a Davos «assolutamente temporaneo». Il tempo che l’Europa dovrebbe sfruttare per impostare una vera politica economica basata sulla crescita e non solo  sull’austero rigore dei conti pubblici che rischia di allargare le distanze sociali.

L’incognita della geopolitica.  I fronti caldi, diciamo pure bollenti, del «contesto globale» sono tre, a parte l’emergenza ambientale che finora è stata affrontata con una totale e dissennata mancanza di politiche sovranazionali.  Il primo è la polveriera del Medio Oriente ( e di una parte dell’Africa) con i continui e asimmetrici attacchi di guerra dell’Isis. Una minaccia che ha costretto l’America a rivedere la sua posizione di disimpegno dal ruolo di gendarme del mondo e ha spinto Obama a chiedere al Congresso mani libere per un eventuale intervento militare. Il secondo fronte è la Russia, schiacciata dal crollo delle entrate per la caduta del petrolio e dalla svalutazione del rublo: il nazionalismo zarista di Vladimir Putin ha trovato nuovi spunti e nuovi consensi nel Paese,  in un misto di risentimento e di sfida, all’America e all’Europa, a partire dall’avanzata in Ucraina. Non è un caso se a Davos quest’anno i russi siano i grandi assenti. Infine, in Europa sono in arrivo elezioni che, in diversi paesi, Grecia, Spagna e Gran Bretagna, potrebbero cambiare gli attuali equilibri, appesi in modo precario a una sorta di unità nazionale tra popolari e socialdemocratici. Che cosa succederà se in Grecia e in Spagna dovessero vincere i partiti dell’estrema sinistra? E se in Gran Bretagna dovessero risultare in maggioranza le forze politiche che chiedono l’uscita dall’Unione?  Vedremo. Intanto il mondo continua a ballare sull’orlo di un vulcano chiamato diseguaglianza cronica.

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