Glovo: perché tenere lontane le consegne a domicilio con il suo marchio

La potente società, con la sua piattaforma, si vanta di essere un esempio di sostenibilità, anche con iniziative sociali. Ma intanto è sommersa dalle multe in tutta Europa per continue irregolarità.

Repartidor en bicicleta de Glovo a Valencia

Glovo ormai è un marchio che conosciamo tutti. Una gigantesca piattaforma digitale, creata nel 2015 in Spagna da Óscar Pierre e Sacha Michaud e poi acquistata, nel 2022, dal gruppo tedesco Delivery Hero, capace di far arrivare nelle nostre case tutta una serie di prodotti, dal cibo dei ristoranti e delle pizzerie alle medicine, dai piccoli pacchi ai prodotti tecnologici, dal vino al caffè. Tutto ricevuto a domicilio, comodamente, grazie al febbrile e mal pagato lavoro di un esercito globale di rider.

La piattaforma, con gli ordini trasmessi attraverso il suo sito oppure con una semplice app, continua a macinare record mondiali. Il fatturato del 2024 supera la cifra di 1 miliardo di euro, con una crescita del 50 per cento rispetto all’anno precedente; il servizio è attivo in 70 paesi dei quattro continenti, con una copertura potenziale di una popolazione di 2,2 miliardi di persone.

Anche in Italia Glovo, controllata dalla società locale Foodinho, che secondo le cattive abitudini dell’universo web e del settore del food delivery di fatto scansano le tasse versate da qualsiasi piccolo o grande imprenditore onesto, propone un servizio di consegne di enorme successo, grazie a uno slogan: “Tutto a casa e nel più breve tempo possibile”.

Qualsiasi prodotto viene infatti consegnato, con la velocità-record garantita dai rider, con il sistema del quick commerce, ogni cosa arriva a destinazione entro 30 minuti, una sorta di evoluzione, anche tecnologica dell’e-commerce, su misura per chi ha fretta di mangiare la sua pizza o la sua porzione di sushi.

Ma ci sono anche altri record di Glovo, dei quali si parla meno nelle sue campagne di marketing. Tra questi le multe che la piattaforma riceve in tutta Europa, e anche in Italia. A parte le cifre, spesso consistenti (ma bisogna vedere se effettivamente le sanzioni vengono pagate, tra un ricorso e l’altro), quello che impressiona, sono le motivazioni.

Violazioni della privacy e del trattamento dei dati relativi ai rider impegnati nel servizio, che attraverso la geolocalizzazione, sono sempre sottoposti al controllo aziendale. Uso illecito dei dati biometrici. Lavoratori classificati, in modo falso, come autonomi, mentre sono a tutti gli effetti dipendenti. Accordi anti-concorrenza. Ritardi pagamenti dei contributi pagati. Attività postale senza autorizzazioni.

Le cifre delle multe, erogate a raffica nel corso degli ultimi anni, variano da 150 mila a 329 milioni di euro, arrivano da vari Antitrust, nazionali ed europei, e si incrociano con un altro aspetto davvero singolare della strategia di Glovo. Di fronte a questa valanga di contestazioni, tutte molto documentate, che mostrano il volto di un gigante dell’e-commerce perlomeno discutibile per le sue politiche aziendali, Glovo si è inventata la maschera della sostenibilità applicandola alla sua faccia aziendale. E ha annunciando urbi et orbi “l’impatto positivo e la sostenibilità della sua azione”, con alcuni programmi di iniziative sociali e ambientali, come il Glovo Impact Fund: un fondo, la cui dotazione dovrebbe crescere in proporzione all’aumento del fatturato, per finanziare programmi come Glovo Access, con il quale, secondo gli annunci dell’azienda, vengono distribuiti, accanto milioni di pasti gratuiti a ong e Banche alimentari in tutto il mondo.

L’universo dell’e-commerce e delle consegne a domicilio è il regno dei “lavoretti”, una parola generica che nasconde sfruttamento e continue violazioni delle norme di sicurezza e di giusto guadagno dei lavoratori. In questo libro trovate tutti i racconti e i dati.

Il Mito infranto copertina

Ammettiamo pure, a questo punto, che l’azione di distribuzione gratuita di cibo da parte di Glovo sia autentica e sincera, e che i risultati sbandierati siano reali e non virtuali, ma per essere davvero un’azienda sostenibile, non sarebbe più semplice rispettare regole e norme che esistono nei paesi europei a tutela della trasparenza delle attività economiche, e dei diritti dei lavoratori e dei consumatori? Per intenderci. forse sarebbe meglio se Glovo, invece di creare fondi per conquistare un’etichetta di sostenibilità, diventasse una piattaforma che non viene più multata a ritmi che ricordano gli automobilisti più indisciplinati in circolazione sulle nostre strade.

E infine: noi come consumatori, liberi di fare le scelte che vogliamo, dobbiamo accettare tutte queste contraddizioni in silenzio, senza reagire, e come il frutto inevitabile dei meccanismi che regolano il settore, opaco per definizione, dell’e-commerce e del food delivery?

Forse una cosa concreta, forte e utile la potremmo fare, per sollecitare Glovo a essere davvero sostenibile: intanto quando ordiniamo un prodotto potremmo chiedere di volerlo ricevere non attraverso il servizio della piattaforma nata in Spagna e cresciuta in tutto il pianeta. Non ci dovrebbero essere particolari problemi in proposito: o il fornitore cambia il servizio di consegna e sceglie un altro operatore, oppure noi cambiamo il fornitore.

Una forma di protesta pulita e trasparente, a differenze di diverse pratiche di Glovo, e della sua recente idea, poi opportunamente ritirata, di dare un mini-bonus ai rider pronti a lavorare a qualsiasi temperatura tropicale, mettendo a rischio la loro vita per una consegna sul modello super quick, rapidissimo e talvolta rischiosissimo per chi porta il cibo da consegnare.

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