Il più importante investimento pubblico nel Mezzogiorno è un’opera che non si farà mai: il Ponte sullo Stretto di Messina. Dopo trent’anni di tira e molla e di infinite discussioni la reale utilità del progetto, la società Stretto di Messina è stata messa in liquidazione con i suoi 43 dipendenti e con una sede romana in affitto che, a proposito di sprechi, costa 600mila euro l’anno. Ma se l’opera è archiviata, e i cantieri non si apriranno e non si vedrà neanche l’ombra dei 10.000 posti di lavoro promessi, la telenovela giudiziaria del ponte sullo stretto è appena iniziata. La Sicilia e la Calabria diventeranno il teatro di battaglie legali, con una raffica di ricorsi al Tar, al Consiglio di Stato, ai giudici civili, e perfino alla corte costituzionale, per determinare i possibili indennizzi a favore del gruppo Impregilo, oggi controllato dalla famiglia Salini, e delle altre aziende che formano il consorzio vincitore dell’appalto. Si parla di più di un miliardo di euro di rimborsi, per la gioia di scuole di avvocati pronti a sfornare parcelle milionarie. In ogni caso, a prescindere dai futuri giudizi di merito che andranno avanti per altri decenni, già oggi il ponte sullo stretto è un fantasma costato alle casse dello stato qualcosa come 600 milioni di euro, più o meno l’investimento necessario per dotare l’intero Mezzogiorno della banda larga.
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La cancellazione di un’opera così significativa per il Sud e per il sistema Paese, certifica quali danni irreparabili può fare la politica quando non decide e abdica al suo ruolo affogando nell’inconcludente meccanismo dei veti incrociati. Il ponte è stato una meteora che appariva e scompariva dall’agenda Italia, fino a quando il governo Berlusconi del 2001 ne ha fatto una bandiera del suo programma di modernizzazione del Paese. Peccato però che mentre il centrodestra non è riuscito a passare dalle parole ai fatti, ogni volta che il centro sinistra ha vinto le elezioni, la prima cosa che ha pensato di fare è stata la cancellazione del progetto. Siamo andati avanti così, con continui stop and go, per ben 12 anni, senza mai riuscire a condividere un’opera che pure avrebbe potuto dare una spinta propulsiva all’intera economia meridionale. La crisi del debito pubblico, con i tagli lineari che hanno colpito anche i cantieri delle infrastrutture, ha fatto il resto.
Gli effetti collaterali dell’archiviazione del ponte si traducono in due danni che si andranno a sommare al record di un gigantesco investimento pubblico per un’opera che non si vede e non si vedrà. Di fronte a contratti firmati e stracciati, a cause per indennizzi destinate a durare anni, gli investitori stranieri avranno ottime ragioni per stare alla larga dall’Italia e innanzitutto dal Mezzogiorno. Non potendo contare né sulla credibilità della politica, né sulla certezza del diritto, i potenziali investitori esteri preferiranno rischiare i loro soldi altrove, considerando il Sud come il luogo delle missioni impossibili. Il secondo danno è di carattere interno. Di fronte alla concreta possibilità di incassare indennizzi milionari, senza rischiare capitali per realizzare un’opera ma solo pagando bene dei nuovi avvocati, si intravede la seria probabilità che non poche imprese possano scegliere la strada del contenzioso con lo stato per aggiustare i loro bilanci. Una strada a senso unico, perché magari porterà denaro contante per qualche società in affanno finanziario, ma non darà ai cittadini del Mezzogiorno né lavoro né sviluppo del territorio.