Petrolio ed energia verde: il doppio binario di Pechino

Il paese che più inquina al mondo, è anche il numero uno per gli investimenti nelle rinnovabili. Con spese pari al doppio degli Stati Uniti

pechino

PETROLIO E ENERGIA VERDE DOPPIO BINARIO DI PECHINO

Nella Cina dei primati la questione energetica si può riassumere in due record. Da un lato il paese, con la sua crescita esplosiva, è diventato il primo inquinatore del pianeta con il 21 per cento delle emissioni di CO2 (rispetto al 20 per cento degli Stati Uniti e al 14 per cento dell’Unione europea) e ha superato anche l’America per i consumi di petrolio; dall’altro versante la Cina ha conquistato la leadership mondiale per gli investimenti nelle rinnovabili. In questo secondo ambito i progressi sono stati rapidissimi: la Cina ha investito quasi il doppio degli Stati Uniti, 34,6 miliardi di dollari, in energie alternative puntando innanzitutto sull’eolico. Con il risultato che nel solo 2010 gli impianti eolici installati hanno significato una potenza di 42mila megawatt (gli americani non sono andati oltre i 40mila megawatt), pari cioè alla produzione di energia di 42 centrali nucleari di taglio medio-grande. Ma per i cinesi la questione energetica significa uno strategico presidio industriale, e così se per l’individuazione di nuove fonti petrolifere sono stati acquistati terreni in tutto il mondo, specie in Africa, nell’industria verde i cinesi hanno puntato decisamente sulla produzione di pannelli solari. La Suntech, per esempio, è un gigante del settore e con il suo fatturato attorno ai 250 milioni di dollari il gruppo cinese è ormai il primo produttore al mondo di pannelli solari.

Come possiamo tradurre, in sintesi, la politica del doppio binario, petrolio e rinnovabili, del governo di Pechino? L’obiettivo è chiaro: il governo cinese non ha alcuna intenzione di ridurre i consumi energetici, anche perché con centinaia di milioni di contadini che lasciano le campagne ogni anno per mettersi in marcia verso il benessere delle metropoli, si moltiplicano gli acquisti di lavatrici, frigoriferi, computer ed elettrodomestici. Il boom economico trascina i consumi e crea una domanda di rifornimenti energetici che nessuno in Cina si sogna di raffreddare. Anzi. Non a caso, prima del petrolio per soddisfare il fabbisogno nazionale di energia i cinesi fanno ricorso al carbone che importano, ogni anno, per un valore di circa 150 milioni di tonnellate, e tutte le più importanti province industriali del paese hanno allo studio la creazione di nuove centrali.  Ma proprio per rendere sostenibile la domanda energetica nazionale, e non trovarsi improvvisamente dipendente da forniture straniere, il governo rincorre anche i primati della green economy. Per il nucleare ha puntato le sue carte sulla tecnologia più avanzata, con la costruzione di reattori di quarta generazione a base di torio che non ha bisogno di essere arricchito come l’uranio. Per le rinnovabili, invece, come abbiamo visto gli investimenti si concentrano nell’eolico e nel solare, coniugando ricerca e innovazione, impianti per le forniture e industria per i prodotti del settore.

Sullo sfondo della questione energetica c’è poi il tema allarmante dell’inquinamento ambientale, sul quale i cinesi hanno sempre rifiutato accordi globali che potrebbero esporre il pese al rischio di sgradite ispezioni da parte di autorità internazionali. Il governo sa bene che l’obiettivo, più volte dichiarato, di ridurre le emissioni di gas serra del 40 per cento rispetto ai dati del 2005, è di fatto irrealizzabile. Un paese così energivoro è già un miracolo se riesce a non peggiorare il suo quadro ambientale, tanto che le emissioni inquinanti nel 2010 sono cresciute del 9 per cento: non accadeva dal  1992. Chiunque frequenti, anche non assiduamente, le metropoli di Pechino e Shanghai  si accorge di quanto l’aria sia diventata irrespirabile, con quelle nubi grigie di smog che avvolgono le città come una cappa plumbea. Soltanto a Pechino i microgrammi di polveri sottili presenti nell’aria,  con valori che oscillano da 142 a 175, valgono sette volte i parametri tollerati. E la situazione peggiorerà, senza una sostanziale correzione di rotta, visto che l’area metropolitana della città avrà. nel 2020, 90 milioni di abitanti, con gli acquisti di automobili che, in tempi di recessione globale, qui procedono al ritmo di duemila unità al giorno.

Per correre ai ripari, di fronte a uno scenario che potrebbe diventare disastroso per la sostenibilità, il governo utilizza tutti gli strumenti di pianificazione a sua disposizione. Per esempio, costruendo un’autentica Muraglia verde, trecento milioni di alberi piantati nella regione dell’Hebei a nord ed a ovest della capitale, che dovrebbe respingere la sabbia che avanza verso la capitale, anche in seguito alla deforestazione delle zone agricole,  e frenare così l’inquinamento urbano. Oppure incentivando la mobilità attraverso usi alternativi rispetto all’inquinante automobile: così a Pechino stanno tornando le biciclette (la municipalità locale intende metterne 100mila a disposizione dei cittadini alle uscite delle stazioni della metropolitana nelle zone centrali) e per procurarsi una targa di circolazione bisogna partecipare a una specie di lotteria con la quale si punta a contingentare le immatricolazioni di nuove autovetture. Investimenti massicci si stanno moltiplicando nelle reti ferroviarie (120 miliardi di dollari sono stati spesi nel 2010 per l’alta velocità), con l’obiettivo di collegare alla rete super veloce, entro la fine del decennio, tutte i capoluoghi delle province cinesi, ad eccezione del Tibet e della Xinjiang. E, infine, all’orizzonte della questione energetica c’è la grande scommessa sull’auto elettrica che la Cina vuole giocare fino in fondo anche per alimentare quello che ormai è diventato il primo mercato automobilistico del mondo. «Dobbiamo elettrificare la mobilità, ed essere meno prigionieri del petrolio» è lo slogan delle autorità politiche. A tirare la volta in questo settore ci pensa la Byd (Build yor dreams), un  vero gioiello dell’industria cinese, che già oggi sforna modelli elettrici con un’autonomia di 300 chilometri, il doppio della concorrenza americana ed europea. La Byd è nata soltanto dieci anni fa, partendo dai componenti elettrici, e poi sviluppando la tecnologie delle batterie a ioni di litio (di cui è ricchissimo il Tibet), per poi passare alle auto. Risultato: un computer portatile su due, nel mondo, ha una batteria prodotta dalla Byd, e nel 2010 la società ha venduto 800mila veicoli elettrici puntando a raddoppiare la cifra nel 2011. Tra i principali azionisti della Byd non poteva mancare il miliardario americano Warren Buffet, che ha fiutato l’occasione già nel 2008 quando ha deciso di investire 230 milioni di dollari per acquistare il 10 per cento della società: attualmente il valore della sua quota si è decuplicato rispetto alla spesa iniziale. E anche questo è un piccolo segno di come la Cina, al tavolo dell’energia e dei suoi molteplici sviluppi, voglia dare le carte, sbaragliando qualsiasi concorrenza.

 

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