ISLAM MODERATO: COS’È –
«La definizione di islam moderato non mi convince. Preferisco parlare dei musulmani che hanno una fede, vanno in moschea, seguono i precetti e vivono pacificamente. E sono la stragrande maggioranza…»: Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio parte da qui per provare a definire i contorni culturali e geopolitici del mondo islamico con il quale possiamo dialogare e trovare un terreno comune nella lotta all’Isis.
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- Si può parlare di moderazione a proposito di una scelta così radicale come quella della fede?
La religione è moderazione, e guida sulla via del bene.
- Anche quando ha un’idea della vita, come nel caso dell’islam, diversa da quella dei cristiani?
La sacralità della vita è riconosciuta da tutte le religioni, poi ognuno la interpreta a suo modo. Se lei si riferisce ai kamikaze, posso dirle che usare la vita per distruggere è solo una bestemmia. Sempre e comunque.
- Il poeta siriano Adonis dice che l’islam, una religione di conquista, è per sua natura violento.
E’ vero che l’islam è nato come una religione di conquista, però anche i cristiani hanno avuto la loro fase storica di violenza. Il terrorismo e la guerra che uccidono, sono caricature dell’islam e non lo rappresentano.
- Come si fa a dialogare con una religione che, a nostra differenza, non riconosce la separatezza tra Dio e Cesare, tra la fede e lo Stato?
E’ un punto molto delicato, però dobbiamo essere consapevoli che tra l’islam e il cristianesimo ci sono alcune differenze importanti, come questa. Il dialogo tra le fedi deve passare attraverso le persone. Con un obiettivo comune ribadito da Papa Francesco proprio oggi, entrando nella moschea di Bangui, nel cuore dell’Africa: la pace.
- Già, la pace. Intanto dobbiamo fare i conti gli attacchi dell’Isis anche a casa nostra, nel cuore dell’Europa.
Cerchiamo di definire il campo di “battaglia”, senza affidarci ai raid militari. La vera lotta dobbiamo farla al nihilismo, alle teste vuote di chi cede alle seduzioni dell’Isis. Il primo terreno è il web, dove avviene il reclutamento. E poi le grandi periferie. Ci sono tanti giovani che hanno grandi possibilità, ma non hanno un senso per la loro vita.
- Siamo attrezzati?
Scontiamo ancora dei ritardi culturali. Ricordo le bellissime parole di Tullia Zevi, di fronte a gravi episodi di antisemitismo. Diceva: «Dobbiamo riempire quelle teste vuote». E oggi per farlo, abbiamo bisogno della collaborazione dei musulmani.
- Quanto conta nelle «teste vuote» il disagio per la povertà?
C’è molta retorica su questo argomento. Credo che conti, ma ci sono anche diversi terroristi provenienti da famiglie benestanti.
- E il disagio delle periferie europee?
La mancata integrazione, in tante città europee, ha creato ghetti di figli di musulmani di seconda e terza generazione. Luoghi dove mancano agenti di prossimità, mediatori: scuole, sindacati, partiti. E nel vuoto il nihilismo non trova anticorpi.
- Per la prima volta i musulmani in Italia sono scesi in piazza per prendere le distanze dall’Isis. Ma erano davvero pochi.
Innanzitutto hanno pesato, negativamente, le condizioni metereologiche. Poi tenga presente che solo il 15 per cento dei musulmani in Italia frequenta le moschee. Mi sembra comunque che sia stato un buon inizio: era la prima volta che i musulmani manifestavano in così tante città italiane contro il terrorismo”.
- Si sta riducendo, tra i musulmani, la zona grigia dei giustificazionisti dell’Isis?
Sì, e per un motivo preciso: i musulmani si sentono loro stessi sfidati e dilaniati dalla violenza dell’Isis. E questo li porta a rinunciare al vittimismo.
- E sta aumentando la consapevolezza che nel nostro paese, da immigrati, si conquistano diritti ma anche doveri?
Lo scoglio maggiore, su questo versante, è quello che lei accennava prima, ovvero la separatezza tra Stato e Chiesa, che per loro non esiste. Intanto, però, l’Europa è diventata il luogo della nuova coabitazione e ai musulmani viene chiesto di accettare le leggi del Paese dove hanno scelto di vivere.
- Parliamo, invece, delle possibili alleanze con i musulmani contro il nemico comune. Dove le costruiamo? E dove sono gli interlocutori sui quali puntare?
Lei all’inizio mi chiedeva dei musulmani «moderati». Spesso facciamo confusione e dimentichiamo che la maggioranza degli islamici non sono arabi, ma asiatici. E stanno in paesi come l’Indonesia, dove c’è una pacifica convivenza di cinque confessioni religiose. Non le sembra una sponda importante per noi?
- Una: possiamo allungare l’elenco?
Vado avanti. Anche in India c’è un islam che parla il linguaggio della pace. Per non parlare della tradizione sufi, molto mistica, in Egitto e in Turchia. Del Libano, terra di coabitazione religiosa, di alcune scuole sciite, come quella di Najaf in Iraq, improntate al dialogo. Come alcune università, strategiche nella cultura musulmana, che abbiamo completamente dimenticato…
- Quali in particolare?
Penso all’Egitto, alla Tunisia e al Marocco. Non a caso sono luoghi sbeffeggiati dall’Isis, se non attaccati in modo diretto come nel caso della Tunisia.
- E come governi dobbiamo affidarci a un generale, al Sisi, in Egitto, ed a un dittatore, Erdogan, in Turchia?
Bisogna rispettare il giudizio popolare, anche quando c’è grande scetticismo su alcuni governanti. Mentre dobbiamo riconoscere che in Giordania e in Marocco ci sono governi che possiamo considerare alleati. In ogni caso, ogni politico, in questa parte del mondo, è leader nel suo paese, ma non ha un’autorevolezza e un ruolo sovranazionale. E questo va tenuto presente nella costruzione delle alleanze.
- In Siria Assad ha un futuro?
Questo lo decideranno i siriani. Certamente Assad non è stato capace, prima di evitare e poi di concludere una guerra che è in corso ormai da quattro anni
- Nel dialogo che lei auspica, e che sviluppate come comunità di Sant’Egidio, non è venuto il momento di affermare la reciprocità: loro hanno le moschee nel mondo occidentale, ma noi dobbiamo avere la libertà di costruire le chiese.
Purtroppo siamo lontani da questo obiettivo, anche perché le leggi in materia, nel mondo arabo e musulmano, sono molto più severe rispetto all’Occidente. Un passo avanti possiamo farlo eliminando la religione dalla cittadinanza: nella carta di identità di un uomo e di una donna non deve esserci la sua fede. Questa sarebbe la premessa per la libertà di culto riconosciuta a tutti i cittadini.
- Lei ha usato nell’intervista sia la parola guerra sia terrorismo, quasi che fossero sinonimi. Ma non è così.
In realtà stiamo combattendo, allo stesso tempo, una guerra e una serie di attacchi terroristici.
- Si arriverà mai al riconoscimento del Daesh, lo stato islamico?
Credo proprio di no, perché l’Isis è destinato a essere sempre più indebolito dalla sua violenza e ad avere sempre più nemici.