Gli sprechi in Borsa: qualcuno bara?

Sappiamo tutti quanto la nostra Borsa rappresenti i limiti del capitalismo italiano: relazionale, poco aperto al mercato e alla concorrenza, chiuso nei patti di sindacato che blindano controlli e giochi di potere. Con il risultato che le società quotate a Milano sono appena 261 e alle attuali quotazioni, tutte insieme, valgono circa 100 miliardi di […]

Sappiamo tutti quanto la nostra Borsa rappresenti i limiti del capitalismo italiano: relazionale, poco aperto al mercato e alla concorrenza, chiuso nei patti di sindacato che blindano controlli e giochi di potere. Con il risultato che le società quotate a Milano sono appena 261 e alle attuali quotazioni, tutte insieme, valgono circa 100 miliardi di euro della sola Apple, uno dei gioielli della tecnologia e dell’innovazione industriale made in Usa. Ma la scarsa propensione degli imprenditori a quotarsi non è legata soltanto ai limiti culturali, prima che finanziari, del nostro capitalismo, alla sua enorme fatica di uscire dal sentiero buio di gestioni personalistiche e poco trasparenti. C’è altro, e si tratta di una serie di sprechi che ingessano il sistema e producono effetti contrari rispetto agli obiettivi della trasparenza e della concorrenza. Innanzitutto ci sono i costi esorbitanti dello sbarco sul mercato, che viene pilotato (con profumate commissioni) dal solito club dell’alta finanza, e la valanga di adempimenti burocratici, altri costi e altri sprechi, che le aziende, anche la più piccola, devono svolgere per essere, formalmente, in regola. È un tipico meccanismo all’italiana: una montagna di carta, nel nome della solita trasparenza, mentre nei fatti la Borsa resta un catino di titoli spesso manipolato da mani forti e comunque poco attraente per i piccoli risparmiatori, i veri giudici della qualità di un piano industriale e dei suoi effettivi risultati. Il secondo spreco è ancora più clamoroso e colpisce in modo diretto i risparmiatori che spesso sono disarmati di fronte a un diluvio di notizie non sempre attendibili e neutrali. Lo scorso anno, per esempio, secondo quanto la Consob ha appena comunicato nella sua relazione annuale, sono stati prodotti quasi 24mila report da parte degli analisti, quasi sempre dipendenti delle banche, sulle 261 società quotate. Il ritmo è quello di un esercito di osservatori al lavoro, notte e giorno, con le lenti di ingrandimento: una media di 100 report al giorno, escludendo il sabato e la domenica, visto che se Dio vuole gli analisti riposano durante il fine settimana. I report, ricordiamolo, danno un’indicazione abbastanza circoscritta rispetto a tre possibilità: comprare, tenere, vendere. Lo scorso anno, nel 45 per cento dei casi, si è consigliato di comprare, e nel 30 per cento dei casi di tenere. Peccato che però gli investitori, a guardare i risultati dell’anno borsistico, abbiano fatto il contrario, favorendo una pioggia di vendite. E tra questi investitori, in prima fila, ci sono state le stesse banche i cui analisti hanno scritto la valanga di 100 report al giorno. Tanto lavoro, tanta scienza, tanta competenza: tutto sprecato. O forse tutto costruito con l’unico obiettivo di provare a tenere in piedi una piccola casetta, sperduta tra i grattacieli della finanza globale, chiamata Borsa Italiana.

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