Un ufficio in valigia: risparmio o isolamento?

Un sogno o una prospettiva angosciante? In questo articolo di Rita Querzè pubblicato sul sito Corriere.it, si parla di questa rivoluzione silenziosa nel mondo del lavoro. Stanno sparendo gli uffici. Niente più scrivania, pc smaterializzato insieme con il telefono fisso e la foto dei bambini. Le imprese più avanzate consegnano ai dipendenti una valigetta dove ci […]

Un sogno o una prospettiva angosciante? In questo articolo di Rita Querzè pubblicato sul sito Corriere.it, si parla di questa rivoluzione silenziosa nel mondo del lavoro. Stanno sparendo gli uffici. Niente più scrivania, pc smaterializzato insieme con il telefono fisso e la foto dei bambini. Le imprese più avanzate consegnano ai dipendenti una valigetta dove ci sono cellulare e pc. Poi ciascuno lavora dove e quanto vuole. Chi ci tiene può andare anche in azienda. Poi, però, si mette dove capita. Nessuno ha un posto fisso per sé, nemmeno i dirigenti. Le scrivanie ci sono, ma hanno le ruote, si spostano a seconda delle esigenze di giornata. Non è fantalavoro. Si sta già facendo.

Nella sede milanese della Siemens, per esempio. Novecento dipendenti. Qui l’ufficio nomade si è subito dimostrato meritocratico: contano solo gli obiettivi raggiunti. Certo, nella stragrande maggioranza dei casi in Italia le cose restano congelate all’epoca del ragionier Fantozzi. Gli impiegati continuano ad avere uffici con scrivanie scolpite nella pietra. Chi sceglie orari flessibili viene penalizzato. Per non parlare di chi lavora part time.

L’Italia del lavoro a due facce è ben raccontata da uno studio condotto dall’ Osservatorio sul Diversity management della Sda Bocconi di Milano. Le coordinatrici del gruppo di lavoro, Simona Cuomo e Adele Mapelli, hanno sintetizzato i risultati nel libro «La flessibilità paga. Perché misurare i risultati e non il tempo» (Egea). Nel complesso sono stati considerati, nel periodo 2007-2010, 52 mila lavoratori distribuiti su due grandi aziende. L’unica forma di flessibilità prevista era il part-time, utilizzato dal 13,2% del personale, in larga parte donne. Rispetto ai colleghi a tempo pieno, quelli a orario parziale sono risultati penalizzati. La loro valutazione di fine anno è sempre stata più bassa: solo il 10,5% dei part time ha ricevuto i punteggi più alti in assoluto contro il 21,5% dei full time. La disparità di trattamento è ancora più evidente in termini di passaggi di livello contrattuale: l’88,3% dei lavoratori part-time non ne ha registrato nessuno, contro il 72,7% dei full-time. I fortunati che hanno fatto due o più salti di livello sono il 5,7% dei full-time e lo 0,8% dei part-time. Infine, anche gli incrementi salariali non legati ai passaggi di livello sono stati attribuiti di preferenza ai lavoratori a tempo pieno. 

Secondo Cuomo e Mapelli la diversità di trattamento non è giustificata. Anzi, chi lavora meno ore di solito è più produttivo. «L’Italia ha un numero di ore lavorate l’anno superiore alla media europea, ma la nostra produttività è inferiore, dunque l’abbassamento delle ore lavorate non incide negativamente sulla produttività, ma anzi sono proprio i lavoratori che operano per meno ore l’anno a essere più produttivi», chiarisce Adele Mapelli. Che cosa non funziona, allora? «Un approccio conformista e primitivo rispetto alle forme di flessibilità – risponde Simona Cuomo -. Chi sceglie il part time viene rinchiuso in un ghetto. Senza tenere conto che avere il massimo da tutti i propri dipendenti è vantaggioso prima di tutto per l’azienda stessa». Come se la cavano le imprese che stanno sperimentando nuovi modelli organizzativi? «È vero, da noi nessuno ha più un suo ufficio, nemmeno i dirigenti – conferma Liliana Gorla, direttore del personale Siemens -. Ci si alterna sulle scrivanie e i posti fisici di lavoro sono il 20% in meno rispetto al personale perché mediamente un dipendente su cinque lavora da casa. Sia chiaro, non l’abbiamo fatto solo per le donne. Crediamo semplicemente che sia un cambiamento vantaggioso per tutti. Per l’azienda, che ha persone più produttive e motivate. E per i lavoratori che organizzano meglio le loro giornate. Anche le sedi di Roma, Padova e Bologna stanno andando in questa direzione». Risultati? «Abbiamo iniziato da poco, ma la produttività del lavoro sta già aumentando». Resta qualche dubbio sulla scelta strategica dell’azienda realmente finalizzata a tale obiettivo, viste le problematiche occupazionali che sconta la Siemens in Italia.

In ogni caso per lavorare poco e male non c’è bisogno di essere a casa propria. Si può fare benissimo anche dall’ufficio. E cosi scompariranno un giorno i luoghi di lavoro? E questo, amici di Non Sprecare, non potrebbe anche andare ad incidere sui rapporti umani e incentivare forme di solitudine?

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