Tagli alla spesa o spesati da tagliare?

Oggi vi racconto una storia. Vera. Molti e molti anni fa un mio amico giornalista si trovò più volte a incontrare, per motivi professionali, un importante ministro democristiano. Tra i due, entrambi intelligenti e determinati, si sviluppò una reciproca stima. Tanto che il ministro, alla vigilia delle successive elezioni, insistette con il reporter perché questi […]

Oggi vi racconto una storia. Vera. Molti e molti anni fa un mio amico giornalista si trovò più volte a incontrare, per motivi professionali, un importante ministro democristiano. Tra i due, entrambi intelligenti e determinati, si sviluppò una reciproca stima. Tanto che il ministro, alla vigilia delle successive elezioni, insistette con il reporter perché questi si candidasse nelle liste dello scudocrociato: ci avrebbe pensato lui, capocorrente, a fargli conquistare il seggio.

Il giornalista non sembrava proprio un dc, era piuttosto un federalista europeo, un po’ radicaleggiante, ma alla fine, complici le insistenze del ministro da una parte e il promesso laticlavio dall’altra, si risolse a scendere in campo: prese un’aspettativa elettorale e venne candidato in un collegio senatoriale del nord. Risultato: fu trombato e tornò alla carta stampata, mestiere nel quale era un vero, autorevole "senatore".

Anni dopo, quando mancavano un paio di settimane alla conclusione della legislatura e le Camere avevano già interrotto i lavori, un senatore dc morì improvvisamente. Con inusuale, per il belpaese, efficienza, al suo posto venne subito nominato il primo dei non eletti, appunto il nostro amico giornalista. Il quale, indaffarato all’estero, non trovò nemmeno il tempo di recarsi a Palazzo Madama, peraltro deserto, e mandò qualcuno a informarsi delle pratiche del caso.

Di ricandidarsi per riconquistare lo scranno, neanche a parlarne: nel frattempo anche il suo ministro-protettore era deceduto e lui non era mai stato uomo della Balena bianca. Comunque ebbe di che consolarsi: per quella manciata di giorni sul seggio (virtuale) il Nostro maturò il diritto alla pensione vita natural durante a patto di pagare, in comode rate trattenute direttamente dal vitalizio, i contributi relativi ai cinque anni della legislatura.
Di casi simili ve ne sono altri ma non vi starò a tediare.

Ora qualcosina è cambiato, ma assai poco: ad esempio è necessaria un’età minima (60 anni) per poter riscuotere il vitalizio, fatta salva un’eventuale infermità. I partiti, tutti i partiti inclusi quelli di opposizione, si sono resi complici di queste abnormità. I radicali, che sempre tuonano contro il "regime dei partiti", il loro finanziamento pubblico e le loro altre soperchierie, per decenni hanno utilizzato il metodo della "staffetta": metà legislatura a uno e metà a un altro dei loro accoliti, così le pensioni a carico dello Stato diventavano due.

I comunisti, dal canto loro, quando dovevano giubilare un funzionario ormai "cotto" lo facevano eleggere in Parlamento, di regola per due legislature onde fargli maturare una congrua quiescenza, indispensabile anche perché si guardavano bene dal versare i contributi a chi lavorava per decenni sotto la falce e il martello.

In proposito, tutti i partiti, con l’aggiunta dei sindacati, negli anni ’60 e ’70 approvarono una legge, reiterandola più volte, che stabiliva che ai funzionari politici e sindacali, sulla base di una semplice dichiarazione dell’amministratore dell’organizzazione, venisse riconosciuta un’anzianità previdenziale (e quindi una base per il calcolo della pensione Inps) a sanatoria delle mancate contribuzioni. Molti funzionari, alcuni poi divenuti anche parlamentari, si ricostruirono così a spese della collettività una "carriera" che per molti di loro risultò essere iniziata a 14 anni.

In questa gara a chi se l’inventava più dispendiosa un posto di rilievo spetta alle Regioni, nate negli anni ’70 ma rapidissime a recuperare il tempo perduto, specialmente quelle a statuto speciale: baby pensionati, indennità sontuose, miriadi di dipendenti e quant’altro.

Qualche giorno fa il "Corriere" ha calcolato che, fra il 1999 e il 2008 i rimborsi elettorali ai partiti sono aumentati di 11 volte: nessuno si è stupito e soprattutto nessuno si è alzato in Parlamento proporre un drastico taglio di questi contributi che oltretutto aggirano spudoratamente il voto popolare che nel ‘93 si pronunciò (al 90 per cento) per abolire il finanziamento pubblico ai partiti politici.

So bene che i cosiddetti costi della politica sono una piccola quota della spesa pubblica. Ma, se è vero che il pesce puzza a partire dalla testa, in una fase come l’attuale in cui si prospettano drastici tagli alla spesa pubblica, per ottemperare alle richieste della Ue e non finire come la Grecia, certo l’esempio che viene dalle principali istituzioni non ci rassicura affatto. Come chiedere ulteriori decurtazioni agli stipendi pubblici (aumentati del 42 per cento in un decennio) da un pulpito che ha incrementato le sue spese del 1.110 per cento? Si tratta con ogni evidenza di una situazione che rende ancora più difficile un’operazione già di per sé impervia.

Su circa 800 miliardi di euro di spesa pubblica complessiva, quasi metà della quale gestita dagli enti locali, poco meno di 300 miliardi è costituita da pensioni dei dipendenti pubblici, 171 miliardi da stipendi, poi ci sono le missioni militari all’estero, le spese per investimenti (che continuano a calare). Comprimere queste voci, com’è ovvio, è quasi impossibile e talvolta anche controproducente (pensiamo agli investimenti, in particolare). Rimangono le spese per consumi intermedi e le spese correnti.

Queste ultime due voci assommano a circa 200 miliardi e sono state già tosate nelle passate finanziarie. Quindi il grasso che cola è davvero poco ma è comunque qui che la forbice di Tremonti dovrà nuovamente esercitarsi nelle prossime settimane. Siano davvero sicuri che una forte riduzione del costo della politica non sarebbe un indispensabile viatico per un’impresa così ardua?

Fonte: Dagospia

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