Quando l’impiegato diventa designer: se definisce il proprio spazio è più produttivo

Addio ai grigi corridoi, alle scrivanie allineate, e ammutolite, nel biancore dei moderni open space. Addio ai gambi neri delle lampade da tavolo e alle schiene anonime delle stampanti. Addio agli spazi standardizzati in nome dell’enigmatica identita’ aziendale. Addio agli azzardi di architetti e designer che mettono al mondo la loro idea di ufficio, a […]

Addio ai grigi corridoi, alle scrivanie allineate, e ammutolite, nel biancore dei moderni open space. Addio ai gambi neri delle lampade da tavolo e alle schiene anonime delle stampanti. Addio agli spazi standardizzati in nome dell’enigmatica identita’ aziendale. Addio agli azzardi di architetti e designer che mettono al mondo la loro idea di ufficio, a cui gli impiegati non resta che adattarsi. I luoghi del lavoro del futuro dovranno recuperare colore e assomigliare piu’ a un patchwork che a un allevamento di scrivanie da laboratorio. Dovranno essere sempre piu’ il frutto di scelte e idee di chi li’ ci passa gran parte della vita. Solo cosi’, chi lavora, riuscira’ a dare il meglio. E persino l’azienda se ne avvantaggera’.

La necessaria rivoluzione. A dirlo, supportati da esperimenti, verifiche e interviste, sono due ricercatori della Scuola di Psicologia dell’universita’ di Exeter nel Regno Unito che invitano in maniera esplicita, quasi rivoluzionaria, a sovvertire le regole che governano silenziosamente le istituzioni aziendali e a restituire in un certo qual modo una porzione di potere al lavoratore.

Lo spazio e le mansioni. I risultati sono chiari. Quanto piu’ i luoghi sono omologati, quanto meno lasciano spazio all’inventiva e alla personalizzazione, tanto piu’ le persone che ci lavorano sembrano estinguere slanci e voglia di fare. L’indagine, pubblicata sull’ultimo numero della rivista specializzata British Journal of Management e sul Journal of Experimental Psychology, ha analizzato il comportamento di piu’ di duemila figure professionali impiegate in uffici e ne ha misurato l’atteggiamento nei confronti dello spazio di lavoro e la produttivita’. Gli autori hanno intervistato in due diversi momenti i lavoratori e li hanno sottoposti a due esperimenti volti a valutare il variare della produttivita’ di ciascuno di loro a seconda delle caratteristiche dello spazio in cui veniva chiamato a svolgere le proprie mansioni.

L’habitat e il controllo. In queste simulazioni i lavoratori si trovavano di fronte a situazioni in cui non avevano alcuna possibilita’ di intervenire sul tipo di spazio di lavoro e altre in cui venivano consultati sui cambiamenti da apportare. A ciascuno di loro poi veniva, naturalmente, posta la domanda su come si sentiva e ne veniva misurata la produttivita’. In particolare, gli impiegati si dovevano confrontare con quattro habitat molto diversi. Il primo era un ufficio neutro e funzionale, il secondo era decorato con piante e fotografie, nel terzo l’impiegato poteva comporre il design dello spazio mentre nel quarto, il progetto dell’impiegato veniva “ridefinito” da un manager.

Produttivita’ e liberta’. Appaiono persino scontati i risultati conseguiti. Quanto piu’ gli impiegati potevano intervenire sugli spazi , quanto piu’ essi mostravano un elevato grado di felicita’. Senza dire degli stimoli e delle motivazioni a svolgere le proprie attivita’ quotidiane. Molti di loro si sentivano a proprio agio come non era mai accaduto e riuscivano a identificarsi piu’ a fondo con gli obiettivi dell’impresa. Ma non solo. Quelli che potevano lavorare in uno spazio con piante, fotografie e immagini hanno mostrato una produttivita’ superiore del 17 per cento a quella di chi si ritrovava nell’ufficio “neutro” e “funzionale”. Ma i piu’ bravi ed efficienti, oltre che i piu’ sollevati e gratificati, si sono mostrati quelli che potevano dire la loro sullo spazio in cui venivano chiamati a lavorare. La loro efficienza superava del 30 per cento quella degli altri.

Il potenziale represso. I luoghi di lavoro, spiegano gli autori della ricerca, non devono essere disegnati solo seguendo, quando pure si e’ in qualche modo gia’ fortunati, delle logiche ergonomiche. Non si deve prestare solo attenzione ai mal di schiena, ma a tutto il potenziale represso che, in questo momento, riduce in maniera significativa il grado di partecipazione e la produttivita’ degli impiegati.

La temporaneita’ e il desiderio di fissare dimora. L’assenza di controllo di un professionista sullo spazio in cui si viene chiamato a lavorare pero’ non e’ certo casuale. Negli anni che abbiamo vissuto, spesso con difficolta’ per un lavoro sempre piu’ marcatamente precario, nelle imprese c’e’ stata una significativa riduzione del numero di scrivanie destinate a uno e a un solo lavoratore e a sempre piu’ persone e’ stato fatto capire chiaramente che e’ meglio rimanere “leggeri” perche’ ogni permanenza e’ destinata a essere temporanea. Eppure ci resta ancora qualcosa. Nonostante tutto questo di cui ciascuno di noi e’ testimone, resta dentro ciascuno di noi, e la ricerca ne e’ in qualche modo una struggente prova, il desiderio atavico di potere fissare dimora. Di rendere permanente anche quello che non lo e’. O non lo e’ piu’.

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