Paul Valadier
Pascal ci ha insegnato a distinguere gli «ordini», cioè a non mescolarli per non incorrere nelle peggiori confusioni e nel mancato rispetto della complessità della realtà. Accingendoci a intraprendere una riflessione sullo spirituale in politica, non siamo forse in contraddizione rispetto a quel monito? E al di là di Pascal, non corriamo il rischio agendo così di forzare delle distinzioni così ben giustificate dalla storia da far sembrare incosciente ogni tentativo di ignorarle? Attraverso un’esperienza diffusa e dolorosa, abbiamo compreso abbastanza bene che, quando la mistica sconfina nella politica, per citare Péguy, tanto snaturiamo la mistica quanto falsifichiamo la politica. Infatti, se la mistica (per ora diciamo «lo spirituale») si compromette con la politica, non se ne ottiene nulla di buono: degradata e distolta dai propri fini, ne risulta pervertita dall’interno. D’altronde accade lo stesso anche per la politica: appena quest’ultima avanza pretese di dignità mistica, assume l’aspetto ripugnante delle tirannie o dei totalitarismi.
Così, sacralizzandosi, essa diventa una caricatura di sé stessa, pervenendo a ciò che è stata chiamata «religione secolare » (Eric Voegelin). Questi insegnamenti e queste ammonizioni sono incontestabilmente giustificati. D’altronde, la laicità alla francese ha creato in noi dei riflessi che ci inducono a respingere quasi istintivamente simili mescolanze impure. Tutto questo è bello e buono. Tuttavia tali avvertimenti non dovrebbero impedirci di chiedere a noi stessi se vi sia un rovescio della medaglia. Ora, questi lati nascosti, le distinzioni rigide e le distanze fissate in maniera netta sono numerose e noi facciamo giorno dopo giorno esperienza degli inconvenienti che il politically correct ci vieta di vedere chiaramente. Una politica senz’anima, relegata nell’immediatezza o nella difesa degli interessi a breve termine, non vale più di uno spirituale impersonale, senza carne e senza presa sulla vita sociale e politica. Un’opposizione troppo rigida annienta sia il politico sia lo spirituale.
La filosofa americana di origine tedesca Hannah Arendt ha posto alla base dei propri lavori una preziosa (e tradizionale) distinzione tra ciò che chiama la vita contemplativa e la vita activa. La Arendt ha sempre deplorato la svalutazione tipicamente moderna della vita contemplativa, connessa all’estrema valorizzazione della vita activa. D’altronde la filosofa mostra che questo disequilibrio non serve neppure a restituire alla vita activa tutta la sua vitalità e la sua pertinenza. Perché, in definitiva, si potrebbe credere che, liberata dal controllo o dal peso della vita contemplativa, essa abbia finalmente trovato la propria autonomia – come amano ripetere certi pappagalli della modernità –, che si sia emancipata e abbia trovato la propria consistenza. Al contrario, sostiene la Arendt, una tale rottura del rapporto conduce alla decomposizione della vita activa e alla sua perdita di senso. Una delle sue opere maggiori, Vita activa. La condizione umana, dimostra con un rigore implacabile che la vita activa, senza riferimenti alla vita contemplativa, si autodistrugge, ottenendo così il risultato che l’azione, in particolare l’azione politica, viene misconosciuta nella sua fragilità, e pertanto confusa con la fabbricazione di oggetti, e che l’uomo stesso, bloccato dalla necessità biologica di vivere e di lavorare, s’identifica con un animal laborans, dunque con una bestia limitata alla produzione di beni di prima necessità e alla riproduzione di sé.
Una tale lettura della «condizione moderna», come recita il titolo della traduzione francese del libro, ha qualche cosa di unilaterale, che la Arendt eredita probabilmente dal proprio maestro Heidegger, ma non si può in alcun modo tralasciare la sua diagnosi inquietante. Senza apertura sulla vita contemplativa, la vita activa si indebolisce ineluttabilmente ed è ben lontana dal trovare un suo regime proprio e «autonomo». La nostra società si affanna alla ricerca di beni di vario genere o dei molteplici saperi sempre più specializzati; essa rischia però di perdervi la propria anima, cioè di non sapere più esattamente la ragione per cui sopravvive, quale senso attribuire alla vita in comune e all’esistenza personale.
A meno che non ci si vanti di godere senza freni e di pensare senza un orizzonte metafisico… dunque, probabilmente, di non pensare affatto! Ne sono testimoni un buon numero di romanzieri o di registi cinematografici e teatrali che si fanno una reputazione di rimestare nel sordido e nel sulfureo, in mancanza di una reale potenza creatrice che presupporrebbe una qualche ispirazione o un certo dinamismo intellettuale e spirituale. Gli applausi e le lusinghe di cui li si circonda autorizzano a non insistere troppo sul sintomo così visibile della malattia che affligge coloro che chiamiamo «opinionisti» e qualche altro benpensante.
Una politica senz’anima non vale più di uno spirituale disincarnato, anche se molti pensano di liberare la politica riconducendola ai fatti concreti e all’ordinaria ammini-strazione, e altrettanti si credono tanto più spirituali quanto meno tengono i piedi per terra. Ma l’illuminismo, oggi così invadente nelle Chiese, non è certamente un segno di santità e di autenticità spirituale, non più di una politica terra terra che non offre ai cittadini le opportunità di uno Stato vivo e creativo. Citiamo ancora Péguy: «La politica si beffa della mistica, ma è ancora la mistica a innervare la politica».