Le ipocrisie verdi delle archistar

 Vittorio Gregotti Una mia zia, defunta ormai da quarant’anni, aveva negli anni Cinquanta con la sua energia e il suo entusiasmo, convinto le altre signore del suo condominio (una dozzina) a far crescere sulle loro lunghe terrazze fiori, alberelli, verde pendente, così da rendere la fronte dell’immobile particolarmente piacevole. Si trattava di preoccupazioni ornamentali e […]

 Vittorio Gregotti

Una mia zia, defunta ormai da quarant’anni, aveva negli anni Cinquanta con la sua energia e il suo entusiasmo, convinto le altre signore del suo condominio (una dozzina) a far crescere sulle loro lunghe terrazze fiori, alberelli, verde pendente, così da rendere la fronte dell’immobile particolarmente piacevole. Si trattava di preoccupazioni ornamentali e certo non di eco compatibilità, ma si può considerarla se non l’inventrice almeno un’importante anticipatrice del «bosco verticale»? Un bosco verticale che purtroppo è stato poi soppresso a causa del suo costo di manutenzione ma che forse con le tecniche moderne potrebbe essere sostenuto, anche se con le difficoltà che incontra anche oggi il mantenimento dell’esperimento delle facciate del museo di Quai Branly a Parigi. Ma questi sono tutti dettagli episodici di fronte al vento dell’eco compatibilità che sconvolge, più che la pratica urbana, le ideologie recenti degli architetti. Qualche spirito maligno ha scritto di trasformazione della eco sostenibilità in ego sostenibilità degli architetti.
Nella prefazione al libro Green Metropolis di David Owen, Guido Martinotti spiega con chiarezza molti degli equivoci e delle approssimazioni sulle responsabilità ambientali delle grandi concentrazioni urbane nei confronti della campagna abitata. Nel caso della produzione architettonica la parola «eco» è poi sovente diventata un obbligo mercantile. «Construction durable» ed «éco quartier» sono definizioni che indicano soprattutto il tentativo di ridurre a slogan popolari una serie di problemi assolutamente seri e reali ma certo dai quali non è, né potrebbe essere, legittimo dedurre una nuova morfologia organizzativa della città e ancor meno una forma architettonica delle sue parti. La deduzione è sempre una metodologia anticreativa.
Persino una delle più importanti prese di coscienza dei nostri anni a proposito della compatibilità dello sviluppo infinito e delle gravi conseguenze ambientali dello sfruttamento rapace delle risorse naturali, si trasforma sovente, per l’architettura dei nostri anni, anziché in un impegno, nella moda dell’«ecocompatibile». Così, per ogni prodotto il prefisso «eco» è diventato garanzia di attualità e di mercantile correttezza, trasformato in copertura ideologica nella rincorsa al successo, a sua volta sospinto dalla ecologia ridotta a moda, anziché a nuove e possibili equità sociali. Scriveva Indira Gandhi nel 1972 a proposito dell’abitare che «la peggior forma di inquinamento è la povertà» e vent’anni più tardi il processo di globalizzazione aggrava il problema, nonostante l’apparente popolarità raggiunta dalla questione della sostenibilità ambientale. Forse ci siamo dimenticati che «oikos» è, nel greco antico, il nome della cose, cioè l’ecologia è anzitutto, nel senso più ampio, al di là del problema ambientale delle risorse e dell’inquinamento, problema dell’abitare che (anche senza scomodare Heidegger) è, insieme a quello del costruire, essenza dell’architettura, anche se questo non toglie nulla alla drammaticità della critica situazione ambientale e al tema dello sfruttamento delle risorse.
Ma qui a Milano siamo tranquilli perché i nuovi orti botanici dell’Expo 2015 (planetari come tutti i grandi orti botanici delle città europee del XIX secolo) saranno un elemento decisivo per risolvere oltre alla questione ambientale anche quelle della fame nel mondo, vittoriosi contro i grandi sistemi di sfruttamento nei confronti dei Paesi del Terzo mondo, avendo successo dove anche la grande organizzazione internazionale della FAO, nei suoi sessant’anni di vita, clamorosamente ha fallito. Tutto questo anche se il destino dell’area del grande giardino botanico dell’Expo è provvisoria e, con ogni probabilità, aperta all’oscuro futuro dello sfruttamento immobiliare.
Difficile quindi che (con buona pace di Gilles Clément) esso possa diventare testimonianza durevole di una nuova relazione tra natura-campagna e città e far risorgere una cultura contadina divenuta ormai urbana nei comportamenti, nei desideri e nei vizi.
Anche a questi principi sembra si stia adeguando persino il nume Rem Koolhaas, una delle più note archistar degli ultimi anni, brillante comunicatore, che ha fatto di recente alcune dichiarazioni ufficiali di pentimento rispetto alle proposte per molti anni fondamento delle sue architetture, posizioni largamente sostenute contro quelli che lui considerava tre mali della città: «la storia, il contesto e l’ideologia». Egli aveva anche dichiarato la fine dello spazio pubblico e il trionfo della città generica, sposandone con entusiasmo la privatizzazione. Adesso sembra che abbia cambiato idea e indotto i suoi seguaci a farlo. «Ce n’est jamais trop tard pour bien faire», diceva sovente mio nonno, per chiudere con un nuovo omaggio alla mia famiglia.
 
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