La sfida della nuova rivoluzione industriale

Bottiglie di plastica che diventano magliette, scarti di acciaieria che arricchiscono il fondo stradale, pezzi di arredamento completamente riutilizzabili: le vie del riciclo sono infinite. E possono rappresentare una grande opportunità di crescita per le aziende che lo praticano, anche in Italia, come Riva 1920, Autogrill, Messaggerie, la bresciana Vezzola per gli inerti o le […]

Bottiglie di plastica che diventano magliette, scarti di acciaieria che arricchiscono il fondo stradale, pezzi di arredamento completamente riutilizzabili: le vie del riciclo sono infinite. E possono rappresentare una grande opportunità di crescita per le aziende che lo praticano, anche in Italia, come Riva 1920, Autogrill, Messaggerie, la bresciana Vezzola per gli inerti o le Filature Miroglio. Ma alla base di questo mutamento di prospettiva, che ci porta a riutilizzare materiali già sfruttati invece di consumare risorse naturali sempre più scarse, c’è una rivoluzione industriale in corso a livello globale. Il modello produttivo tradizionale attinge risorse, crea prodotti e scarta rifiuti, inquinando. I nuovi modelli progettano, o ri-progettano, i prodotti sulla base di cicli di vita chiusi, non dannosi per la salute umana e l’ambiente, valorizzando le componenti che possono essere riutilizzate in modo perpetuo.

 

Progettazione rigenerativa
«Riciclare sempre gli stessi materiali sarà l’unico modo, alla lunga, per difenderci dall’esaurimento delle risorse», sostiene Michael Braungart, il guru tedesco della progettazione rigenerativa, conosciuta come C2C o Cradle to Cradle, dalla culla alla culla. Braungart punta a una rivoluzione radicale della produzione industriale, separando il ciclo dei materiali organici da quello dei materiali «tecnici», cioè sintetici. I due cicli nel suo sistema restano sempre divisi e s’incrociano solo nel prodotto finito, che dopo l’uso va restituito al produttore e disassemblato per far rientrare i due tipi di materiale ognuno nel suo ciclo di pertinenza: quelli organici possono tornare alla terra e quelli tecnici vanno riutilizzati. Cradle to Cradle è una parola d’ordine che ormai caratterizza un movimento molto vasto, costituito da centinaia di imprese, istituti di ricerca, enti pubblici e agenzie di certificazione. In una decina d’anni la Mdbc — fondata in Virginia da Braungart insieme all’architetto americano William McDonough per aiutare le aziende a convertirsi alla sua filosofia — ha certificato con il marchio C2C un migliaio di prodotti in tutto il mondo. «Purtroppo ho trovato molto più ascolto negli Stati Uniti che a casa mia», si rammarica Braungart, un tedesco dal marcato accento svevo, che in Europa è ancora relativamente poco conosciuto. In Italia, la prima ad associarsi al Cradle to Cradle Network è stata Milano Metropoli, agenzia per lo sviluppo sostenibile della Provincia di Milano, nell’intento di dar vita a una rete lombarda di soggetti interessati alla progettazione rigenerativa, che potrebbe diventare un elemento di competitività, soprattutto per il manifatturiero più orientato all’export. Dalla collaborazione con Best Up, il circuito per la promozione dell’abitare sostenibile di Giuliana Zoppis e Clara Mantica, è nato il Premio C2C, vinto nella prima edizione da RivaViva con il letto Byblos, prodotto in legno massello di riforestazione, assemblabile a incastro senza parti metalliche, con colla senza formaldeide e con finitura di olio cerato smaltibile come rifiuto domestico.

Gli scarti tossici
Le sostanze tossiche, oggi usate a piene mani nel manifatturiero, sono il problema principale da risolvere nei processi industriali che Braungart cerca di rivoluzionare. Chi entra nell’ottica della produzione rigenerativa, deve eliminarne il più possibile. In pratica, il sistema Cradle to Cradle prevede tre fasi: prima viene l’analisi, a cui ogni impresa deve sottoporre i prodotti da certificare, per identificare tutte le sostanze chimiche utilizzate, risalendo indietro nella supply chain fino a nove passaggi. Non è un processo semplice: un televisore, ad esempio, può contenere più di 5 mila sostanze chimiche diverse. Dopo aver analizzato a fondo la composizione del prodotto e della supply chain, viene la seconda fase: ridisegnarlo, riducendo al minimo le sostanze tossiche che lo compongono. «Ci rendiamo conto che non si possa sempre ridurre questo numero a zero, ma cerchiamo di avvicinarci il più possibile e spesso otteniamo risultati sorprendenti», precisa Braungart. L’ultimo step è costruire una nuova supply chain, basata su processi chiusi: tutti i materiali usati per i nuovi prodotti devono essere basati su sostanze che hanno avuto una vita precedente. L’obiettivo, alla lunga, è una società a rifiuti zero.

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