In Italia ci sono troppe cave e non si ricicla il cemento

Legambiente punta i riflettori su un problema silenzioso, che scava sotto le radici del Belpaese, senza portare alcun vantaggio al territorio: le attività estrattive portano ogni anno all’apertura di nuove cave, che sfruttano le materie prime del territorio e poi vengono abbandonate, spesso nelle mani della criminalità organizzata.   Per iniziare la riflessione, ecco un estratto […]

Legambiente punta i riflettori su un problema silenzioso, che scava sotto le radici del Belpaese, senza portare alcun vantaggio al territorio: le attività estrattive portano ogni anno all’apertura di nuove cave, che sfruttano le materie prime del territorio e poi vengono abbandonate, spesso nelle mani della criminalità organizzata.

 
Per iniziare la riflessione, ecco un estratto introduttivo del Rapporto Cave 2011 redatto da Legambiente: «il settore delle attività estrattive è oggi un perfetto indicatore per capire come un Paese è capace di immaginare il proprio futuro. Ossia di come pensa di tenere assieme identità e innovazione, tutela del proprio patrimonio storico culturale e sviluppo economico. Perché è un’attività che ha accompagnato la storia urbana, riguarda da vicino tanti settori “pesanti” dell’economia – come edilizia e infrastrutture -, incrocia alcuni marchi del Made in Italy nel Mondo, come la ceramica e i materiali pregiati. E interessa fortemente il paesaggio e la qualità dei territori in cui le attività si svolgono, sollecita ragionamenti che riguardano il rapporto con una risorsa non rinnovabile come il suolo e la gestione dei beni comuni. Ma soprattutto oggi in molti Paesi europei si è messa in moto una profonda innovazione che ha permesso di ridisegnarne completamente i profili creando nuove imprese, lavoro in un ambito strategico della green economy. Non esistono infatti più scusanti credibili per non ridurre in maniera significativa il prelievo da cave attraverso il recupero e il riutilizzo degli inerti provenienti dall’edilizia e, attraverso regole trasparenti e una giusta tassazione, ridefinire il rapporto con il territorio di un’attività che ha un impatto rilevantissimo».
 
I risultati dell’indagine di Legambiente sono sconcertanti: nel 2011 sono 5.736 le cave attive e 13.016 cave dismesse, nelle Regioni in cui esiste un monitoraggio. A questi numeri, quindi, andrebbero sommate le cave abbandonate che non risultano ufficialmente in Calabria, Abruzzo e Friuli Venezia Giulia, il che porterebbe il dato, secondo i ricercatori di Legambiente, a superare di gran lunga le 15.000 cave dismesse. Se quindi ai dati dovesse seguire una rappresentazione grafica del Belpaese, quello raffigurato sarebbe sicuramente uno Stivale pieno di buchi.
 
A questo punto sono d’obbligo due riflessioni poste dall’associazione del cigno: prima di tutto, perché deturpare continuamente il paesaggio italiano, quando ogni anno da demolizioni e ristrutturazioni potrebbero essere recuperati materiali edili in quantità tali da consentire una significativa riduzione delle cave, volte alla ricerca di sabbia e ghiaia con le quali, poi, tornare a produrre cemento.
 
Nel Rapporto viene subito evidenziata un’incoerenza di fondo: l’Italia è la prima potenza produttrice di cemento, ma l’ultima nel saperlo riciclare.  Si pensi per esempio alla Danimarca, paese in cui circa il 95% del materiale derivante da ristrutturazioni e demolizioni viene riciclato. Bene, nello Stivale si recupera solo il 10%, portando così un pesantissimo 90% in discariche o inceneritori e andando, poco dopo, ad aprire l’ennesima cava per recuperare nuovo materiale.
 
Secondo passaggio alquanto ambiguo: se proprio l’ambiente deve essere deturpato per necessità edili (ma abbiamo visto che questa esigenza potrebbe essere soddisfatta in modalità molto più sostenibili) per lo meno, che lo Stato ne tragga un beneficio economico da poter ridistribuire sul territorio. Peccato che anche questa condizione venga meno: non solo l’Italia si riempie di cave, ma l’apertura di queste ultime risulta pure gratuita o fattibile a prezzi stracciati. I dati sono sempre riconducibili all’associazione del Cigno: nelle Regioni italiane, in media, le società interessate all’estrazione devono pagare circa il 4% del prezzo complessivo di vendita dei materiali. E se già la quota è piuttosto bassa – perché fa sì che allo Stato rientrino “solo” 45 milioni di euro l’anno a fronte delle concessioni, che al contrario fruttano ai privati estrattori ben 115 milioni di euro/anno – Legambiente evidenzia come in Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, sia addirittura possibile aprire cave senza alcuno sborso di denaro. Verrebbe da chiedersi come è possibile. In effetti un motivo c’è: le attività estrattive sono regolate da un Regio Decreto del 1927, che ha visto succedergli solo un Dpr negli anni ’70 che trasferiva la materia alle Regioni.
 
Ultima nota di demerito: la poca forza legislativa esercitata in questo campo porta ad un effetto collaterale che non può essere ignorato. Quando le cave smettono di essere utilizzate per il reperimento di materie prime, diventano spesso i luoghi prediletti dalla criminalità organizzata per l’abbandono di rifiuti. Il passo da cave a discariche abusive, di fatto, è piuttosto corto.
 
 Virgilio Go Green
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