Il mercato non e’ un’ideologia

di Gianfranco Fabi   Dove arriva la cultura economica e dove comincia l’ideologia? Una domanda che appare importante nel momento in cui si discutono le strategie opportune e necessarie per consolidare l’uscita dalla crisi e, soprattutto per l’Italia, rendere più forte e significativa una crescita che è ancora fragile e stentata. La cultura economica ha […]

di Gianfranco Fabi

 

Dove arriva la cultura economica e dove comincia l’ideologia? Una domanda che appare importante nel momento in cui si discutono le strategie opportune e necessarie per consolidare l’uscita dalla crisi e, soprattutto per l’Italia, rendere più forte e significativa una crescita che è ancora fragile e stentata.

La cultura economica ha molto da insegnare, ma con il rischio costante di sfociare in prese di posizione ideologiche dove ha il sopravvento il peso di giudizi sintetici e di formulazioni sommarie. Un caso tipico, per esempio, è quello del “fallimento del mercato”, una spiegazione drastica per i fenomeni complessi che abbiamo vissuto negli ultimi anni e  in cui nella maggior parte dei casi è stato proprio il corretto funzionamento dei meccanismi di mercato a provocare il riequilibrio delle forze in campo. La crisi del 2009 è avvenuta proprio perché il mercato ha funzionato e a un certo punto ha drasticamente respinto gli strumenti finanziari costruiti sulla sabbia: con adeguate regole lo Stato avrebbe potuto almeno limitare gli eccessi della finanza e avrebbe potuto ridurre gli interventi successivi per contenere le ripercussioni sociali della crisi.

Quella che normalmente viene definita come una dialettica tra Stato e mercato è quindi, al fondo, la ricerca di un equilibrio tra le esigenze prioritarie di libertà dell’individuo e la necessità, più o meno ampia, di una regolazione da una parte e di una redistribuzione dall’altra. E’ un’analisi che percorre tutta la storia della teoria economica come dimostra l’antologia “Tra Stato e mercato” curata da Franesco Pulitini (Ibl libri, pagg. 620, € 25). Un’antologia in cui senza dimenticare i due tradizionali punti forti del “liberista” Adam Smith e dello “statalista” John M. Keynes, si ripercorre il cammino essenzialmente culturale dei grandi protagonisti del pensiero economico degli ultimi trecento anni. Non a caso infatti il libro inizia con un brano di John Locke del 1690 in cui si afferma il carattere naturale e irrinunciabile della libertà personale e termina con un brano di Franco Romani del 1994 in cui si ricorda il principio di sussidiarietà come alternativa alla crescita dell’invadenza, ma soprattutto dell’inefficienza dello Stato nel garantire le promesse del welfare state.

Con un filo conduttore che è proprio della tradizione liberale. Non esiste un metodo sicuro, non esiste una ricetta facile e condivisa. Esiste un processo che più che applicare modelli o seguire ideologie può avere come stella polare la fiducia nelle capacità delle persone di compiere scelte che rispondano alle esigenze insieme dei singoli e della società. Nemmeno quella che potremmo chiamare “scuola liberale” non ha risposte univoche ed anzi spesso ha visto su fronti contrapposti i propri esponenti. Iniziando proprio dal tema in cui l’economia si aggancia alla filosofia. “Il nostro problema – scriveva Hayek – e se si debba considerare la civiltà come il prodotto della ragione umana o se non sia vero il contrario e che cioè si debba considerare la ragione umana come il prodotto della civiltà che non è stata deliberatamente fatta dall’uomo, ma che, piuttosto, si determina in un incessante processo evolutivo”. La differenza non è senza rilievo perché nella prima ipotesi si può giustificare un forte ruolo dello Stato, nella seconda in una logica darwiniana si deve garantire la libertà degli individui e delle imprese perché solo nel confronto, e quindi nella concorrenza, può esserci un premio all’efficienza, ma anche una spontanea ricerca della solidarietà.   .-.-.-.

 

 

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