I beni artistici? I cittadini li proteggono da soli, nel fine settimana.

Gian Antonio Stella E se fosse un «teròn» a salvare «el Leòn» rovesciando il vecchio slogan leghista del «leòn» che «magna el teròn»? Sarà dura: decenni di incuria hanno ridotto le possenti mura veneziane di Palmanova in condizioni disperate. I bastioni, le mura, i terrapieni, i fossati di quella che fu un capolavoro assoluto dell’arte […]

Gian Antonio Stella

E se fosse un «teròn» a salvare «el Leòn» rovesciando il vecchio slogan leghista del «leòn» che «magna el teròn»? Sarà dura: decenni di incuria hanno ridotto le possenti mura veneziane di Palmanova in condizioni disperate. I bastioni, le mura, i terrapieni, i fossati di quella che fu un capolavoro assoluto dell’arte militare del Leone di San Marco sono stati sbranati dalla gramigna, dagli sterpi, dagli alberelli che nel disinteresse della cattiva amministrazione hanno affondato le radici tra gli antichi mattoni crescendo e crescendo fino a sventrare tutto.

È una meraviglia, Palmanova. E come scrive in «Utopia e politica nell’ideazione e costruzione di Palmanova» lo storico Antonio Manno, la sua nascita «è un evento cruciale della storia di Venezia». Siamo nella piana friulana all’incrocio tra l’antica via Julia Augusta e la Strada Ungheresca, sul «vasto fronte di penetrazione indicato, all’epoca, come "Gran Porta d’Italia", teatro delle invasioni barbariche e che i veneziani tentarono in più riprese di chiudere con opere difensive a scala territoriale. Questo ampio ingresso era tagliato da un percorso agevole, la "strada Alta" che, passando per Gradisca, Codroipo e Sacile proseguiva nel trevigiano. Lungo questa via alla cavalleria turca, in più di un’occasione, era riuscita a penetrare nel Friuli».

Spiega Paolo Preto in «Venezia e i turchi», che alla fine del Quattrocento si diffonde «un vero e proprio terrore dei turchi». Nel settembre 1499 «reparti turchi arrivano in Friuli, sopraffanno facilmente le resistenze alla frontiera e dilagano nella pianura seminando il panico a Treviso e a Mestre dove le popolazioni scavano fossati, sbarrano le porte delle case e addirittura si trasferiscono in massa a Venezia creando una confusione così grande», annota nei suoi Diarii Girolamo Priuli, che «veramente saria stato in libertà deli turchi corer fino a Marghera senza contrasto».

C’è da credergli: una cronaca di Jacopo Valvasone di Maniago racconta che «fu fama allora che mancassero in questa Patria (il Friuli, n.d.r.) diecimila e più persone». E la preoccupazione era tale da spingere la Serenissima a chiedere anche a Leonardo da Vinci di andare a Gradisca per studiare cosa si potesse fare. Del sopralluogo resterà traccia nel Codice Atlantico: «… avendo io bene esaminata la qualità del fiume Isonzo e dai paesani inteso come per qualunque parte di terra vi pasino i Turchi…»

Fatto sta che, pensa e ripensa, i veneziani decisero di accettare l’idea di Giulio Savorgnan. Il quale, costruita la fortezza di Nicosia, voleva piantare in località Palmada una piazzaforte simile a quella cipriota, da chiamare «Aquilegia Nuova, per poter con tempo condur gli habitanti della vecchia in quella per poterla far più popolata».

Quando cominciarono i lavori nel 1593, i rischi di nuove irruzioni dei turchi, dopo la batosta loro inflitta a Lepanto, erano in realtà ridotti. Semmai davano fastidio gli austriaci, che si erano impossessati delle vecchie fortezze come Gradisca. Ma visto che non c’era verso di mettersi d’accordo con Vienna sui confini, suggeriva lo stesso Savorgnan, «si potrà dir da noi che la Serenità Vostra vuole parechiarsi queste fortezze per la guerra turchesca…»

Certo è che finalmente, mobilitando cinquemila sterratori estratti a sorte e impiegati a turno per anni, Palmanova fu costruita. Una «macchina da guerra» perfetta. Una stupenda piazza d’armi esagonale sulla quale si affacciano il Duomo e gli edifici principali. Le strade che da lì si aprono a raggiera. Due cerchie di fortificazioni che un paio di secoli dopo diventeranno tre con quella napoleonica. Una pianta a stella con nove punte.

Caserme, casermette, magazzini, case. Un’economia legata per secoli ai militari. Semidistrutta dopo Caporetto quando gli austriaci incendiarono i depositi, impoverita dopo il crollo del muro di Berlino quando le caserme cominciarono a svuotarsi, Palmanova ha pagato caro il suo declino come fortezza a difesa delle terre di San Marco e dell’Italia. In particolare da quando i militari, sempre più indifferenti alla salute delle mura, finirono per disinteressarsene.

Avrebbero dovuto occuparsene, allora, lo Stato, la regione, il demanio, il Comune… Zero. La rievocazione storica del primo alzabandiera del vessillo serenissimo, coi costumi medievali e gli uomini vestiti da cavalieri, quella sì la fanno. Il giorno del Redentore. Da 35 anni. Porta un pò di turisti. Si guadagna qualche spazio sui giornali. Di manutenzione, però, non si è mai occupato nessuno.

Non porta voti, fare la manutenzione. Non si sventolano slogan nelle campagne elettorali, con la cura quotidiana delle cose. Non girano mega-appalti milionari, se giorno dopo giorno squadrette di operai rastrellano, puliscono, strappano le piantine prima che diventino alberi alti sei o sette metri. Nel Paese delle emergenze, lo Stato si muove solo sulle catastrofi improvvise. Non su quelle progressive.

E chi li ha, di questi tempi, i soldi per recuperare chilometri e chilometri di cinta fortificata? «Abbiamo fatto due conti così, senza entrare nei dettagli perché finché non rimuovi la vegetazione non puoi capire il danno che c’è sotto», spiega il sovrintendente del Friuli Venezia Giulia Luca Rinaldi, «per riportare tutto all’antico splendore ci vorrebbero almeno 20 milioni di euro».

E così qualche mese fa il nuovo sindaco Francesco Martines, disperato per le condizioni disastrose delle mura, ha avuto l’idea di coinvolgere direttamente cittadini. E mentre avviava il progetto per fare di Palmanova un patrimonio dell’Unesco, ha chiesto aiuto alla protezione civile regionale, una delle più antiche, organizzate e generose d’Italia: «Le mura sono di tutti i friulani. Sono un patrimonio nostro. Identitario. Intorno al quale ritrovarci. Non possiamo accettare che siano ridotte così».

Detto fatto, il direttore centrale Guglielmo Berlasso ha chiamato a raccolta per una esercitazione a Palmanova 180 gruppi comunali per un totale di 3.200 volontari che, con il concorso degli alpini (pane, salame, cibi caldi e vino per tutti) e l’aiuto di qualche altro centinaio di cittadini, si sono armati di motoseghe, cesoie, cippatrici, forche, rastrelli e hanno assaltato per due sabati e due domeniche, per un totale di 25 mila ore di lavoro, la vegetazione infestante di alcuni tratti delle mura. Facendole riemergere, stupende, dopo decenni.

Un lavoro formidabile, di quelli che, in questa Italia giù di corda e ammaccata per la crisi, tirano su di morale. E che ti fanno dire: perché non succede più spesso? Perché le comunità non vengono coinvolte di più nella difesa, nella cura, nell’amore per le grandi ricchezze monumentali, artistiche, paesaggistiche ereditate dai nostri avi?

Il presidente regionale Renzo Tondo si è precipitato a vedere cosa stesse succedendo. Ha visto, ascoltato, controllato. E promesso che la Regione, nel processo che dovrebbe portare alla rinascita di Palmanova, ci sarà. Auguri. Resta da tornare in quel dettaglio iniziale: il sindaco Martines vive in Friuli da quando era adolescente, parla il dialetto friulano, pensa in friulano, ha sposato una friulana, ma non è friulano. È nato a San Fratello, in Sicilia. E chissà che anche questo non aiuti a capire che l’Italia la possiamo salvare solo tutti insieme.

 

 

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