Aeroporti inutili: ne abbiamo uno ogni 50 chilometri

In Italia ci sono troppi aeroporti e pochi passeggeri. Da Nord a Sud è un rincorrersi di scali aeroportuali spesso fantasma dati i pochi passeggeri in arrivo e in partenza. A guardare l’elenco dell’Enac, il regolatore dell’aviazione civile, se ne contano ben 17 tra Albenga e Trieste. Come leggiamo su Linkiesta.it, dopo la direttiva comunitaria […]

In Italia ci sono troppi aeroporti e pochi passeggeri. Da Nord a Sud è un rincorrersi di scali aeroportuali spesso fantasma dati i pochi passeggeri in arrivo e in partenza. A guardare l’elenco dell’Enac, il regolatore dell’aviazione civile, se ne contano ben 17 tra Albenga e Trieste.

Come leggiamo su Linkiesta.it, dopo la direttiva comunitaria “cieli aperti” del 1997, che ha liberalizzato il settore, nel 2001 la riforma del Titolo V della Costituzione ha assegnato alle Regioni un ruolo di coordinamento sulle infrastrutture territoriali che spesso non ha funzionato portando alla realizzazione di vere e proprie cattedrali del deserto: primo fra tutti l’aeroporto di Salerno per il quale sono stati spesi 100 milioni di euro. Peccato che il tasso di riempimento degli aerei sfiori lo zero.

Solo poco tempo fa vi avevamo parlato dell’enorme spreco di denaro pubblico legato all’aeroporto “Corrado Gex” di Aosta, uno scalo fortemente voluto dai politici locali ma poco sicuro a causa della presenza delle montagne e delle continue raffiche di vento.

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È lunga la lista degli aeroporti inutili: tra questi quello di Perugia, costato 42,5 milioni di euro per gran parte pubblici. Per non parlare poi della nuova struttura inaugurata lo scorso agosto a Pantelleria costata 42 milioni, tutti fondi europei come i 24 milioni di euro adoperati per realizzare il nuovo scalo di Lampedusa. E ancora l’aeroporto di Comiso, in provincia di Ragusa, inaugurato nel 2007 e che, nonostante i 47 milioni spesi per la sua realizzazione, non ha mai visto atterrare o decollare un aereo.

Stando alle elaborazioni dello scorso novembre del Bureau Van Dijk, negli ultimi bilanci d’esercizio (2009 e 2010) gli scali italiani hanno accumulato un rosso complessivo di 3,4 miliardi di euro. Anche l’esecutivo tecnico ha provato a riordinare il settore, senza raggiungere però risultati apprezzabili. A pesare anche il dislivello di passeggeri che per percorrere alcune tratte scelgono il treno e non l’aereo. Ad esempio, secondo il Transport Statistical Pocketbook della Commissione Europea, nel 2011 la tratta Linate – Fiumicino ha servito 1,5 milioni di persone, rispetto agli 8,3 milioni che hanno preso un treno tra Milano Centrale e Roma Termini, soltanto nei primi sei mesi di due anni fa. Un confronto impietoso aggravato anche dalla sostanziale dipendenza dai vettori low cost e confermato dai dati Istat sul trasporto aereo in Italia nel 2011 dai quali emerge che non solo il traffico passeggeri è rimasto invariato (+0,2 per cento) sul 2010 ma ha segnato un -6 per cento sul 2007.

Ed è dall’offerta low cost che dipende la sopravvivenza di aeroporti come quelli di Bologna, Treviso, Palermo, Lamezia Terme. Roma Ciampino e Trapani, con percentuali di offerta intorno al 90%, in pratica servono soltanto il vettore low cost Ryanair. Verona e Olbia devono ringraziare Meridiana, mentre Rimini e Catania la Wind Jet. Una dipendenza questa, gravemente nociva per la salute finanziaria degli scali.

Secondo Ugo Arrigo, docente ordinario di Scienza delle finanze all’Università di Milano Bicocca, i modelli da cui l’Italia dei micro scali potrebbe trarre spunto sono due, diametralmente opposti: quello britannico e quello spagnolo. Nel primo caso l’antitrust inglese nel 2009 ha costretto la Baa, società privata del gruppo Ferrovial che gestisce gli scali londinesi, a vendere Stansted e Gatwick e lo scalo di Glasgow, per intensificarne la competizione e migliorarne il servizio. Dall’altro lato c’è Aena, il gestore pubblico iberico che, sebbene oggi sia schiacciato da 14 miliardi di debiti, in una decina d’anni è riuscito a incrementare il turismo verso il Paese sviluppando gli scali periferici grazie al low cost.

Per Oliviero Baccelli, docente di Economia e politica dei trasporti alla Bocconi di Milano, le difficoltà sono dovute anche a “una rigidità della normativa italiana sulle società di gestione, che non prevede vie di mezzo: o un aeroporto è aperto 24 ore su 24, con tutti i costi fissi che comporta l’assistenza al volo, dalla torre di controllo alle dotazioni di sicurezza, o non lo è. In Spagna e Francia ci sono molte strutture aperte stagionalmente, con logiche molto vicine all’andamento della domanda”.

A incrementare la solitudine di molti scali vi è anche il fatto che sono difficili da raggiungere e che non prevedono un servizio di trasporto pubblico adeguato. Questo li rende poco interessanti anche sul piano del trasporto delle merci.

La domanda finale è questa: Per quanto tempo ancora saremo ancora in grado di sostenere il lusso di un aeroporto ogni 50 chilometri?

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