Se la sostenibilità del Servizio sanitario nazionale è a rischio per il futuro, c’è però un settore della sanità, quello militare, per il quale, secondo i dati pubblici della Ragioneria, nel 2011 lo Stato ha sborsato ben 328 milioni di euro.
Da pochi giorni alla Camera è passata la legge-delega, già approvata in Senato, sul riordino dello strumento militare, che pone sul tavolo, tra gli altri, alcuni elementi di riforma della sanità militare. In particolare l’art.2 prevede di razionalizzare le strutture della sanità militare attraverso criteri interforze e di specializzazione, promuovere convenzioni con la sanità pubblica tramite accordi con le regioni, prevedere l’attività libero professionale intra-muraria dei medici militari, così come per i medici del SSN.
Ma in che modo questa riforma potrà essere di sostengo alla sanità pubblica in difficoltà? E soprattutto, quanto costa allo Stato mantenere una sanità militare separata dalla sanità pubblica?
Come leggiamo nell’inchiesta realizzata da Repubblica, nel Consuntivo del ministero della Difesa per piani di gestione 2011, i 328 milioni di euro sono serviti per coprire le spese sanitarie (59.8 mln euro), il costo per il personale (stima prudenziale di 218.8 mln euro) e il costo di gestione e mantenimento (50 mln euro). Se spalmiamo la spesa sanitaria totale per il bacino di utenza assai ridotto della sanità militare, in tutto circa 318.000 unità (forze armate, carabinieri, dipendenti civili della Difesa) e relativi familiari, vediamo che il costo pro capite è circa la metà di quanto spende il servizio sanitario nazionale per la salute di ogni cittadino, in media 1900 euro/anno. Dal momento che tutti i cittadini sono iscritti al Servizio sanitario nazionale, la spesa sanitaria di un militare pesa due volte, una volta come cittadino e una volta come militare. E’ sostenibile nelle attuali condizioni di finanza pubblica?
Nei conti della Difesa inoltre non c’è una voce di bilancio specifica e unica per la sanità militare così come non c’è mai stata una sanità militare unitaria. Ancora oggi c’è un Corpo sanitario aeronautico, un Corpo sanitario militare marittimo, un Corpo sanitario dell’Esercito. E’ a questo che oggi si vuole rimediare con la legge-delega quando si parla di “criteri interforze” e “razionalizzazione della sanità militare”.
L’altro punto in discussione nel progetto di riordino in discussione è la promozione delle convenzioni con la sanità pubblica. Ma perchè questa esigenza? La conseguenza più evidente di avere un limitato bacino d’utenza è che i medici militari hanno pochi pazienti, per la maggior parte “giovani e sani”.
Quindi per fare pratica su casi gravi hanno bisogno di pazienti civili. Come dice chiaramente il testo dell’Accordo Quadro di febbraio 2012 tra Stato maggiore e Regione Lazio: “lo Stato maggiore della Difesa ha interesse che gli organismi della Sanità militare mantengano elevati standard qualitativi, attraverso un ampliamento del bacino d’utenza” per “facilitare il sostegno a quelle realtà specialistiche (quali chirurgia) che richiedono un più ampio bacino sanitario per tenere il passo con l’evoluzione medica del settore“.
E’ lecito quindi chiedersi se ha senso per lo Stato mantenere in vita una struttura sanitaria che duplichi l’offerta del SSN ma che soprattutto dipende da esso per poter continuare a specializzarsi e sopravvivere.