di Laura Maragnani
Il 24 gennaio 2011 tuonava via agenzia
Ansa: «Il lavoro nero è una metastasi per
l’economia italiana e calpesta la dignità
dei lavoratori». Come no? «Il governo
ascolti le ragioni delle migliaia di giovani
precari che stanno protestando in tutto il
Paese» rincarava con un comunicato il 9
aprile. Coerente: «È indispensabile investire
risorse per garantire più opportunità ai giovani
e assicurare loro prospettive di lavoro
e di vita più stabili». Ebbene, il 29 marzo
2012 Giuseppe Lumia, ex pds, ex ds e oggi
pd, quattro volte deputato e oggi senatore,
membro della commissione Antimafia
(di cui è pure stato presidente nel 2000 e
vicepresidente nel 2006), dovrà comparire
davanti ai giudici della sezione lavoro del
Tribunale di Palermo. E non per sfornare
comunicati contro il precariato, stavolta;
bensì nella veste, per lui alquanto paradossale,
del datore di lavoro che licenzia un
precario da 800 euro al mese non appena
questi chiede di essere assunto in pianta
stabile. È mai possibile?
Il ricorso di Davide Romano, giornalista
ancora precario a 40 anni, è tutto da leggere:
12 pagine fitte per rivendicare il pagamento
di 367.868 euro e 59 centesimi, cioè l’ammontare
stimato di contributi, tredicesime,
ferie non godute negli otto anni in cui è
stato l’addetto stampa del senatore. Inutile
chiedere lumi a Lumia: è irreperibile e la
sua segreteria non molla neppure il nome
dell’avvocato che segue la causa. «Del tutto
campata in aria» ovviamente.
Ma tant’è. La lotta di classe fa capolino
anche nel Palazzo, come ormai testimoniano
avvocati e giudici del lavoro. Addetti
stampa, assistenti, portaborse da un lato;
deputati e senatori rigorosamente bipartisan
dall’altro. Chi si ricorda il primo caso?
Era l’ottobre 2009 quando Gabriella Carlucci,
deputato del Pdl, è stata condannata
a risarcire la sua ex assistente C. S. dopo tre
anni di lavoro irregolare. Nel marzo 2011 è
toccato invece a Francesco Barbato, parlamentare
dipietrista, chiudere con una transazione
segreta la causa intentata da una sua
ex collaboratrice, L.C. Adesso è il turno di
Luca Barbareschi, neodeputato del gruppo
misto. Lo ha citato D.C., una giornalista
che ha lavorato per la fondazione antipedofilia
creata dall’onorevole. E che c’entra
il Parlamento? C’entra eccome, visto che
la Barbareschi onlus ha formalmente sede
in viale Mazzini; Barbareschi, però, spesso
portava i collaboratori della fondazione
a lavorare a Palazzo Marini, che è la sede
dove i deputati hanno i loro comodi uffici.
Qui, in teoria, i collaboratori dei parlamentari
non potrebbero entrare senza
il tesserino ufficiale, quello rilasciato dal
servizio sicurezza della Camera a fronte di
un regolare contratto di lavoro. Il lavoro
nero non dovrebbe esistere, in teoria. Ma
in pratica… Ahi, ahi.
Dopo lo scandalo scoppiato nel 2007
grazie alla trasmissione Le Iene (su 683
portaborse accreditati, solo 54 avevano un
contratto regolare: meno del 10 per cento)
spese parole di fuoco Fausto Bertinotti,
l’allora presidente di Montecitorio ed ex
sindacalista Cgil. Anche Franco Marini,
ex della Cisl ed ex presidente del Senato,
giurò il suo impegno solenne. Risultato?
Nella sedicesima legislatura, quella in
corso, Gianfranco Fini e Renato Schifani
sono ancora lì a combattere con le furbizie
dei poco onorevoli datori di lavoro:
collaboratori spacciati come «ospiti», o
come volontari «a titolo non oneroso», o
come pensionati in cerca di svago socialmente
utile. «Lo stipendio medio è sui
7-800 euro, però ci sono assistenti pagati
anche soltanto 500 euro al mese» calcola
Francesco Comellini, fondatore della
Ancoparl, un tentativo di sindacato ben
presto affondato da una generale ostilità.
Facile capire perché: su 630 deputati,
soltanto 269 hanno chiesto l’accredito
per il loro collaboratore, ossia «hanno
depositato», secondo l’ufficio del questore
Gabriele Albonetti, «la copia di un regolare
contratto». Gli altri 361 si limitano a
incassare i 3.690 euro al mese (ma erano
4.190 fino allo scorso dicembre) che la
Camera eroga a titolo di «rimborso per
spese inerenti al rapporto tra eletti ed
elettori». Parliamo, in tutto, di 27.896.400
euro l’anno. E senza che nemmeno sia
esibita una ricevuta.
Quanto ai senatori, va appena un po’
meglio: compresi i nominati a vita, in 192
su 321 hanno regolarizzato i loro assistenti.
È quasi il 60 per cento. Il questore Benedetto
Adragna fa i conti: «In 101 sono co.co.
pro, 51 hanno un contratto di prestazione
d’opera, 36 sono lavoratori dipendenti
e quattro spaziano dall’apprendistato al
lavoro interinale».
E gli assistenti degli altri senatori?
Non pervenuti. Come non pervenuta
è la leggina che il collegio dei questori
del Senato, su impulso benemerito di
Schifani, aveva presentato per mettere
fine agli abusi in tempi rapidissimi.
Annunciata in pompa magna il 21 aprile
2009, assegnata il 12 maggio alla commissione
Lavoro, lì ancora giace senza
dare il minimo segno di vita: «Non è
ancora iniziato l’esame».
Gli ispettori del lavoro sono arrivati al
Senato e alla Camera l’anno scorso. Hanno
ascoltato decine di persone, studiato
decine di contratti. Ora si rischia l’imbarazzo
istituzionale bipartisan. Eppure
una soluzione ci sarebbe già, e facilissima:
fare come a Strasburgo. «L’eurodeputato
ha diritto di scegliere un collaboratore,
poi a pagarlo provvede direttamente il
Parlamento secondo precise tabelle di
retribuzione» spiega Comellini. Insieme
ai suoi colleghi, suggerisce la soluzione
ormai da anni. E invece?
Dalla neomamma licenziata appena
uscita dalla sala parto alla malata di cancro
messa alla porta perché doveva assentarsi
per la chemioterapia, dal mobbing alle
molestie sessuali, Comellini in questi
anni ha sentito e visto di tutto. Lui stesso
è in causa con la senatrice repubblicana
Luciana Sbarbati; oggi è l’unico, in tutto
il Parlamento, a vantare un contratto
addirittura «certificato» dall’Università
di Modena. Gliel’ha firmato Giuliano
Cazzola, ex sindacalista della Cgil e oggi
vicepresidente pdl della commissione
Lavoro a Montecitorio, che di quella
certificazione è orgogliosissimo. Dice:
«Potrebbero chiederla tutti. E a quel punto
la Camera potrebbe pagare i collaboratori
senza correre il rischio di speculazioni o
imbrogli». Chissà perché, allora, non ci
ha mai pensato nessuno.
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