Il dubbio mi è sorto, per la prima volta, quando chiedendo per gioco a mia figlia che lavoro avrebbe voluto fare da grande, ha risposto: “Nessuno. Voglio essere libera, andare al parco, portare la carrozzina”. E come pensi di mantenerti cara, chi porta a casa i soldi per vivere? “Li prendo al bancomat”. Risposta ineccepibile, penso. Daria ha 5 anni, crescerà. Poi però ho fatto la stessa domanda a mio figlio Francesco (7 anni). E lui: “Il lavoro è una prigione, non siamo nati per essere schiavi, io voglio stare con le persone che amo”. Anche qui, obiezione: già, e poi come vivi? “Non servono i soldi. Sto nel bosco, e mangio le ghiande. Con una coperta che mi tiene caldo”.
Insomma, in questo caso sono bastati due indizi per fare una prova: per questi bambini il lavoro è qualcosa di terribile. Che allontana la loro mamma da loro, che la fa tornare a casa stanca e quasi sempre quando già dormono, che le impedisce di accompagnarli alle feste, ad artistica, a calcio.
Un po’ in fondo è normale: tutti i bambini, a quell’età, vorrebbero i genitori presenti costantemente, e per loro è sempre troppo poco il tempo che si passa insieme. Ma c’è un di più, che forse un tempo non c’era: oggi siamo veramente troppo oberati di impegni, stressati, magari meno costretti al timbro del cartellino ma paradossalmente più risucchiati in giornate senza inizio e senza fine, appesi ai cellulari, collegati a un pc che dovrebbe farci risparmiare tempo ma che ci impedisce di staccare la spina.
E allora, per farci perdonare, per rispondere alla straziante, quotidiana domanda: “Chi ci sta tutto il giorno con noi? E domani? E dopodomani?”, o “Ma torni tardi? Ma arrivi? Mi vieni a prendere a scuola? Mi accompagni da Gaia-Filippo-Beatrice-Lorenzo?”, ecco che ci si difende con un “Amore, mamma vorrebbe tanto stare con te, ma DEVE lavorare, DEVE portare i soldi a casa, DEVE rimanere in ufficio/negozio/giornale/studio/fabbrica/corsia perchè non può fare quello che vuole, uscire quando vuole, farti compagnia come vuole”.
E’ una verità, la maggiore delle verità, ma spesso non è l’unica verità. E’ quella che ci salva l’anima, ma che non basta nè a consolarli, nè a dar loro l’esempio di quello che la vita può essere, nel bene e nel male. Perchè è vero che per alcuni di noi il lavoro è solo un obbligo dovuto alla necessità, ma per moltissimi è anche, o addirittura soprattutto, piacere e gratificazione.
E’ difficile dirlo ai bambini, ma ci sono momenti in cui pur rimanendo loro la cosa incommensurabilmente più importante della nostra vita, al lavoro ci divertiamo, ci esaltiamo, ci sentiamo importanti, o utili, o preziosi, ci diciamo “bene, bravo, bis” e a volte ce lo dicono anche gli altri. E a quei momenti non vogliamo rinunciare non solo perchè costretti dalla necessità di guadagnare, ma perchè ci piace.
E’ tradirli? Forse no. Forse far loro capire che la mamma fuori di casa, lontana da loro, può anche essere contenta e appagata – pur essendo ogni volta felice da morire quando torna a riabbracciarli -, può aiutarli a vedere il mondo, anche quello del lavoro, come un luogo di opportunità e non di perdite. Di piacere appunto, non solo di dovere. Tanto più per generazioni che avranno più difficoltà di noi, temo, a fare il lavoro dei loro sogni, e che dovranno inventarsi con fantasia e cuore aperto motivi di gratificazione.
Eppure, io questo coraggio stento ancora a trovarlo, sono al confine tra la pietosa mezza bugia e la difficile mezza verità. Basterebbe un passo, magari un consiglio: voi ce l’avete?