DI LUCIA BELLASPIGA
L a prima «generazione della decrescita». Una «generazione inascoltata ». Così la definisce il cardinale Angelo Bagnasco nella prolusione al Consiglio permanente dei vescovi, affrontando il «dramma» della disoccupazione giovanile e di una generazione che si affaccia alla vita adulta proprio «quando una serie di condizioni sono diventate sfavorevoli ». «Il cardinale evidenzia giustamente che il nuovo secolo è quello della crisi – commenta il sociologo Aldo Bonomi, direttore di Aaster, consorzio che studia e promuove lo sviluppo sociale del territorio – e induce a riflessioni molto importanti relative al nostro mondo, che poi è quello del capitalismo maturo ».
Bagnasco parla di «generazione non garantita».
I fattori sono tanti. Prima di tutto oggi si è verificato un passaggio dalla manifattura alla terziarizzazione, così l’aspirazione al lavoro operaio vien meno, tant’è che in alcuni territori se non ci fossero gli immigrati i nostri produttori non andrebbero avanti. Si ripete lo stesso fenomeno di quando si passò dal mondo agricolo a quello industriale e i giovani abbandonarono le campagne per la città. Solo che il tutto oggi è accaduto contemporaneamente alla crisi finanziaria che ha fermato le attività terziarie e ha impattato sull’industria: l’offerta è diminuita sia nel settore manifatturiero sia nel terziario, e se si vedono segnali di ripresa a questi non corrisponde una ripresa anche dell’occupazione.
Improvvisamente ci si è accorti che si viveva al di sopra delle nostre possibilità e il cambio di rotta, necessario, non è facile.
Il capitalismo si è reso conto che deve incorporare il concetto di limite. Gli economisti parlano di ‘decrescita serena’, una decrescita che rimanda all’accettazione della sobrietà nei consumi, ad esempio tenendo conto del concetto di ‘chilometro zero’: si consumano solo i prodotti che non hanno bisogno di spostarsi in aereo.
Un nodo toccato dalla prolusione è quello della rimotivazione: occorre reagire, e non c’è tempo da perdere.
Impressiona il fatto che il 28% dei giovani disoccupati non cercano nemmeno più un lavoro, tanta è la sfiducia. Bagnasco parla di un «debito di futuro» che gli adulti hanno verso le nuove generazioni e questo è un punto centralissimo: noi, gli adulti del ’900, e ancor più i nostri genitori, siamo vissuti in una società che aveva mezzi scarsi ma fini certi, siamo cresciuti nell’Italia del dopoguerra, con ancora il ricordo della povertà e la fatica del lavoro, ma con i fini certi che guardavano al benessere e magari tendevano a cose come costruirsi la villetta o comprarsi la Seicento (era il balbettio del consumo che veniva avanti…). Era l’epoca in cui era sicuro come si nasceva e sicuro come si moriva, certo non si dibatteva di eutanasia. Oggi invece i mezzi sono iperabbondanti e i fini incerti. A Londra si vola
low cost con 19 euro, con Internet si chatta da qui a Shangai, ma le prospettive individuali quali sono?
Un’incertezza di cui risentono ovviamente i più giovani.
Ma non solo. In una società così fatta si verificano due tipi di infelicità: un’infelicità senza desideri che è quella degli anziani, i quali non si riconoscono più nel mondo che li circonda; è ciò che l’antropologo Ernesto De Martino chiama ‘apocalisse culturale’, la paura che ‘ci prende quando non ci riconosciamo più in ciò che ci era abituale’…
E il secondo tipo?
Un’infelicità desiderante: hai di fronte un mondo che è un banchetto, ma provi ad allungare le mani e non riesci ad attingere. È ciò che accade ai giovani oggi, in un mondo iperabbondante di opportunità ma che dà solo due alternative: in oppure
out.
O sei ‘dentro’ o sei ‘fuori’, insomma.
Nel ’900 se faticavi prendevi l’ascensore – che era il welfare
– scalavi, salivi nella società, mentre oggi siamo nella società della competizione, tutta in orizzontale, non ci sono ascensori quindi bisogna correre. E ansimiamo dalla mattina alla sera. Il vero problema allora è riequilibrare il rapporto tra mezzi iper e fini incerti. Cito il cardinale Tettamanzi: è pur vero che chi ha chiesto aiuto al Fondo famiglia-lavoro per il 53% sono migranti, ma se prendiamo solo gli italiani l’11% sono gli ex ceti medi, impiegati, ex dirigenti, eccetera. Io dico che è urgente dare una risposta ai bisogni materiali, ma bisogna lavorare soprattutto sull’infelicità e sul desiderare senza limiti, reinserire il concetto della sobrietà, educare non solo all’abbondanza, ma anche alla difficoltà e alla ‘scarsità dentro l’abbondanza’.
Riconvertire gli stili di vita attraverso una «alfabetizzazione etica», insomma.
Il problema non è avere nostalgia del passato, quando eravamo educati alla scarsità, ma far capire che anche l’abbondanza è selettiva, e scarsa (per usare un ossimoro). Ricominciare a dire che non si può avere tutto e che per ottenere bisogna inevitabilmente fare sacrifici. Selezionare gli input che di continuo riceviamo dall’abbondanza (e penso a pubblicità, veline, lustrini), capire che non tutto ciò che appare è vero né possibile. Altrimenti si dà ai giovani una rappresentazione fasulla della realtà, quella «ubriacatura » contro cui Bagnasco ammonisce.
«Il capitalismo si è reso conto che deve incorporare il concetto di limite. I giovani oggi rischiano un’infelicità desiderante»
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