Stiamo sprecando una generazione. Molti giovani convinti che l’università non serve

Intervista a Gaetano Manfredi, presidente della Conferenza nazionale dei rettori. Una proposta: cambiare le lauree triennali e aprire alle discipline tecniche. Un annuncio: con borse di studio e alloggi esistono due Italie.

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Ci sono due fattori che spiegano la fuga dei giovani dalle università del Sud. Uno è la minore propensione dei diplomati a proseguire il percorso universitario, un fenomeno che vediamo in tutta Italia. Il secondo fattore è la preferenza per le università del Nord…: parte da qui l’analisi di Gaetano Manfredi, rettore a Napoli e presidente della Conferenza nazionale dei rettori.

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  • Ma siamo sicuri che si va al Nord, da studenti, solo perché ci sono maggiori opportunità di lavoro?

No, si emigra anche alla ricerca di una migliore qualità della vita e dei servizi universitari, che nelle regioni settentrionali funzionano. Però, vede, a parte l’onda migratoria, a me preoccupa il presupposto culturale che sta passando nel Paese: l’università non serve.

  • Eppure tante famiglie fanno anche sacrifici finanziari per mandare i figli a studiare all’estero.

Sono le famiglie borghesi, con almeno un laureato al loro interno, che conoscono l’importanza dell’università. Nelle altre, dove non c’è un laureato, è consolidata ormai una percezione sbagliata della realtà, e cioè l’inutilità di questi studi.

  • L’università non è più un ascensore sociale.

Non se ne riconosce il valore. Mentre tutte le statistiche ci dicono che con una buona laurea ci sono molte più possibilità di trovare, in tempi brevi, un’occupazione.

  • Intanto dobbiamo fare i conti con un nuovo record: siamo ultimi, tra i paesi dell’Ocse, nella classifica dei laureati in età compresa tra i 25 e i 34 anni.

Questo è un dramma. Stiamo sprecando il capitale umano di un Paese, senza il quale non ci sarà mai un nuovo ciclo di solida crescita economica. Il dato poi va letto con completezza…

  • In che senso?

In tutti i paesi del mondo occidentale il sistema universitario ha due canali: l’offerta tradzionale e quella tecnica. Vere università che, per fare un esempio, in Germania raccolgono circa un milione di iscritti, quasi la metà del totale.

  • E da noi?

Zero. Di fatto non esistono le università tecniche, tranne qualche rara eccezione. In Germania un tecnico di stabilimento, un meccanico specializzato, sono figure di laureati, con le competenze giuste per il mercato del lavoro. Figure che spesso, vorrei ricordalo, in Italia non si trovano. Da noi un perito industriale che esce da un istituto professionale non si iscrive all’università e non lavora: è un Neet, specie al Sud in quanto al Nord comunque le aziende assumono. E questo meccanismo spiega anche la differenza tra l’occupazione dei tedeschi e quella degli italiani.

  • Mi scusi, ma non avevamo fatto la riforma con la laurea triennale proprio per favorire l’inserimento più rapido nel mondo del lavoro?

E’ una riforma incompiuta, perchè manca il secondo canale di formazione universitaria. Inoltre, con questo buco nero, non funziona in modo corretto il passaggio dalla scuola alle università, e il 30-40 per cento degli iscritti alle varie facoltà in Italia, abbandonano gli studi.

  • Bisogna dunque intervenire sull’organizzazione degli studi.

Sì, e bisogna farlo presto. Entro la fine dell’anno accademico faremo al governo e al Parlamento una proposta compiuta per attivare il secondo canale degli studi universitari.

  • Serviranno soldi?

Non è un problema di risorse, anche se quelle servono, ma di organizzazione. Per come funziona attualmente, la laurea triennale non serve perchè non separa chi, una volta conseguita, finisce gli studi e va a lavorare, da chi invece deve continuare per avere un livello adeguato di formazione. Un corto circuito. Quando una laurea triennale, con un profilo tecnico, ha un percorso chiaro, il sistema funziona, come nel caso degli infermieri.

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  • Parliamo di fondi: vi lamentate molto perché continuano a diminuire. Però ne avete sprecati tanti moltiplicando sedi e corsi di laurea…

Andiamo con ordine. La spesa pubblica universitaria in Italia è stata ridotta, negli ultimi anni, di oltre 1 miliardo di euro, pari al 15 per cento del totale. Siamo arrivati a un livello pari a un terzo del finanziamento che l’università riceve dalla mano pubblica in Germania. Nello stesso tempo, le nostra facoltà si sono svuotate di quasi 15.000 dipendenti, tra docenti e ricercatori, e abbiamo l’età più alta d’Europa in entrambi i settori.

  • Forse anche la politica non crede più tanto al valore dell’università.

La sua domanda può sembrare una provocazione, ma coglie un dato di fatto: il nostro ceto politico, a parte le belle parole, non crede più nell’investimento in formazione. Parlano i numeri, e spiegano anche questa lettura culturale. Guardi che lo stesso errore lo hanno fatto molti imprenditori dicendo: non laureatevi, ma venite a lavorare. E adesso pagano il conto.

  • E come mai le università meridionali sono state le più penalizzate dal taglio della spesa pubblica universitaria?

Per i meccanismi automatici che la regolano. Contano le valutazioni, che non sempre considerano con alti giudizi le università del Sud, e il numero degli iscritti. Con regioni del Sud dove stiamo assistendo a una diminuzione del 30 per cento della popolazione universitaria, si spiega anche il motivo per il quale i tagli nel Mezzogiorno sono stati più violenti.

  • Non mi ha risposto, però, su come avete speso i soldi in passato.

E’ vero. C’è stata una costosa moltiplicazione dei corsi di laurea che non ha fatto bene al sistema. Ma quella pagina buia è ormai chiusa. Oggi, se non hai un livello adeguato di professori e innanzitutto di studenti, non puoi più aprire un corso di laurea. Nessuno te lo approva.

  • Ma non pensa che, specie al Sud, abbiamo fatto troppe sedi universitarie?

Abbiamo fatto troppi doppioni. E non abbiamo tenuto conto, in una progrmmazione dell’offerta, della varie vocazioni sul territorio. Poi, certo, c’è stato anche chi ha pensato che un’università possa funzionare con i palazzi e con i professori mediocri, ma senza gli studenti.Adesso, quando chiediamo nuovi fondi, lo facciamo per obiettivi mirati.

  • I suoi colleghi bocconiani dicono che l’università in Italia costa troppo.

Forse non conoscono bene le statistiche: in Germania l’università è tutta a carico dello Stato e dei land.  E quella italiana, per gli studenti, è una delle più care d’Europa. Semmai, penso proprio il contrario: le tasse per la triennale dovrebbero scendere e diventare quasi simboliche.

  • State cercando di contrastare l’elusione degli studenti finti poveri che rubano borse di studio e assistenza a quelli veri?

Partivamo da una vera vergogna. Secondo i dati e le verifiche della Guardia di Finanza, uno studente su due, nel Sud, che accede a tasse scontate e ad altri benefici, non ne avrebbe diritto. Adesso è stata eliminata l’autocertificazione, le verifiche sui redditi e sui patrimoni sono più accurate, e il fenomeno dovrebbe ridimensionarsi.

  • Al Nord borse di studio e alloggi universitari si vedono e funzionano bene, al Sud no.

In questo senso abbiamo davvero due Italie, e due sistemi universitari. Nelle regioni meridionali, la metà degli aventi diritto a una borsa di studio non la ottengono per macanza di fondi, tagliati a mani basse anche dalle regioni. In Lombardia non c’è neanche uno studente che abbia maturato il diritto alla borsa di studio, e non la possa ricevere. Lo stesso discorso riguarda gli alloggi: i posti letto al Sud sono un quarto di quelli del Nord. In queste condizioni, il diritto allo studio nelle regioni meridionali non è garantito. E la mia battaglia da rettore sarà quella di lavorare per ridurre questa incredibile discriminazione.

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