
di PIETRO BARCELLONA
Non so quanti ricordano il
prezioso libretto di Maria
Zambrano, apparso in
Italia quasi subito dopo la
seconda guerra mondiale e
intitolato profeticamente
L’agonia dell’Europa. Maria
Zambrano metteva al centro della
sua riflessione l’idea che se
l’Europa fosse stata soltanto un
fatto economico monetario, essa
si sarebbe dissolta e nulla sarebbe
rimasto più nella memoria
collettiva della grande tradizione
europea. Il problema che poneva
Maria Zambrano, e che oggi si
ripropone a livello anche delle
istituzioni statali, è quello di
come si può legittimare un’unità
di donne e uomini, di popoli e
nazioni, se l’autorità del principio
unificante consiste unicamente
nella costruzione di un unico
mercato, nella creazione di una
moneta unica e nella selezione di
una tecnocrazia che sorvegli
l’andamento dei conti pubblici
nazionali. La Zambrano
prevedeva in definitiva la
dissoluzione e l’inevitabile agonia
di un’Europa senza cultura
comune, affidata esclusivamente
alla moneta unica. Quanto questa
intuizione sia stata profetica è
dimostrato dallo squallido
epilogo che sta caratterizzando
questa fase della vita della
comunità di fronte all’improvvisa
esplosione delle rivolte
nordafricane e dell’inevitabile
problema dell’accoglienza dei
nuovi grandi flussi migratori. Ciò
che colpisce nell’attuale
congiuntura non è tanto la
mancanza di ogni disponibilità
all’accoglienza solidale di chi
fugge dalla propria terra per la
fame e per l’oppressione in cerca
di un’altra patria, ma la povertà
delle ragioni con cui ciascun
Paese europeo tende a difendere i
propri confini e le proprie
politiche, senza esprimere alcuna
visione comune di fronte al
mutamento epocale degli
equilibri socio-politici del
Mediterraneo. Come molti
scrivono, è difficile credere alle
guerre umanitarie, fatte in nome
dei mitici diritti umani: è anzi
evidente che, se da una parte con
gli interventi militari si tende a
riprodurre condizioni di dominio
sulle vecchie colonie africane e
sulle loro risorse economicoenergetiche,
dall’altra si resta
assolutamente indifferenti alle
tante piccole tragedie umane che
si consumano nello specchio
d’acqua che una volta era stato il
bacino delle grandi tradizioni
culturali, filosofiche e religiose
della civiltà europea. Questa
deprimente visione dell’Europa
divisa e conflittuale, che certo
non si può correggere con
qualche dichiarazione retorica e
che non riesce a nascondere il
nulla dell’assenza di ogni "unità
spirituale", è il segno di una crisi
irreversibile dei tentativi,
ideologici e velleitari allo stesso
tempo, di governare un mondo di
miliardi di uomini soltanto in
nome di una razionalità
economica, che dovrebbe da sola
garantire il senso di coappartenenza
a una comune
condizione umana e a un
comune destino. La crisi
dell’Europa è, sotto questo
profilo, la crisi dell’intero
paradigma occidentale con il
quale si è cercato di orientare la
vita di miliardi di abitanti del
pianeta fondando la convivenza
sull’unificazione giuridica della
circolazione dei capitali e delle
merci e sull’estensione
generalizzata dei principi del
mercato ad ogni aspetto della vita
individuale e collettiva. Stupisce
che una riflessione su questo
tema dello spirito europeo oggi
abbia dimenticato persino il
grande dibattito, che si è svolto
dopo la seconda guerra
mondiale, sul destino dell’Europa
e sul futuro del
pianeta rispetto
alle forme
politiche che
hanno
caratterizzato il
secolo delle
guerre, ma anche
il formarsi degli
Stati nazionali
europei. Se si
pensa che tutte le
forme politiche e
istituzionali che
hanno sin qui
caratterizzato la
riflessione sul significato della
"sfera pubblica" di ogni società, si
sono sviluppate nel Mediterraneo
e in Europa, si capisce perché la
crisi dello Stato e il fallimento
della politica non è soltanto una
questione "locale" ma universale.
Alcuni anni orsono, quando uscì
lo scritto Lo stato liberale
secolarizzato vive di presupposti
che esso non può garantire di
Ernst-Wolfang Bockenforde, si
aprì una discussione in Europa,
che vide coinvolti i massimi
esponenti della cultura laica e di
quella religiosa. L’apparente
discussione del rapporto fra fede
e ragione e fra sentimento
religioso e costruzione dello Stato
laico-secolarizzato, come
espressione della razionalità
discorsiva degli esseri umani, in
realtà ha nascosto il vero tema del
futuro destino del mondo: una
progressiva razionalizzazione
scientista delle modalità di
comportamento degli individui,
fino alla scoperta di meccanismi
regolativi automatici, o un ritorno
in termini nuovi della ricerca di
una via dello spirito, che
permetta agli uomini di scrivere
la propria storia nella libertà e
nella fede di una trascendenza
irraggiungibile, ma operante? Si
potrebbe dire, tra un’antropologia
della riduzione della vita umana a
un segmento dell’evoluzione
zoologica totalmente assorbita
nella dinamica fisica e biologica
dell’universo, e un’antropologia
che nega in linea di principio la
possibilità di esaurire la
comprensione dell’uomo nei
risultati delle scienze positive che
ne descrivono il funzionamento.
Se si rilegge in questa prospettiva
il confronto tra Ratzinger e
Habermas e quello tra
Zagrebelsky e Bockenforde, si
capisce che al punto in cui siamo
arrivati non si può eludere la
domanda sul significato della
crisi che stiamo attraversando. È
una crisi di linguaggio che
dipende unicamente dalla nostra
coscienza attardata, incapace di
trovare le parole adatte a
descrivere il funzionamento di un
mondo riducibile, a quanto ci
dicono i neuroscienziati, oppure
si tratta di un vero e proprio
passaggio d’epoca, in cui si
consuma un intero progetto di
civiltà, che tuttavia cancellandosi
non impedisce il riemergere
dell’inquietudine umana di
fronte al mistero del senso della
storia? In questa prospettiva le
soluzioni pacificanti di Habermas
e Zagrebelsky hanno già una
risposta nelle dure smentite della
realtà. Il mondo del diritto e del
mercato sta finendo nelle guerre
fratricide, in un grande disordine
mondiale e in un dominio
incontrollato di pochi gruppi
finanziari. Ciò che appare
impossibile rispetto alla diagnosi
del presente è immaginare un
katèchon che possa arrestare
definitivamente questo processo.
È infatti a partire dalla
comprensione della crisi e di ciò
che si muove in essa che si può
creare un nuovo orientamento
culturale che, registrando il
tramonto dell’Occidente, non lo
viva necessariamente come una
perdita, ma come una possibile
apertura alla speranza che una
qualche salvezza sia ancora
possibile.