Al lavoro tieni il muso: i sorrisi finti fanno male

IL SORRISO di circostanza, tanto di moda negli ambienti professionali, è deprimente. Le persone che sorridono forzatamente si rovinano l’umore e questo stato riduce la loro concentrazione sul lavoro e quindi la loro produttività. E’ quanto sostiene uno studio pubblicato sul numero di febbraio dell’Academy of Management Journal da un gruppo di psicologici della Michigan […]

IL SORRISO di circostanza, tanto di moda negli ambienti professionali, è deprimente. Le persone che sorridono forzatamente si rovinano l’umore e questo stato riduce la loro concentrazione sul lavoro e quindi la loro produttività. E’ quanto sostiene uno studio pubblicato sul numero di febbraio dell’Academy of Management Journal da un gruppo di psicologici della Michigan State University. Che lancia una larvata provocazione: se si vuol rendere il massimo sul posto di lavoro più spontaneità e meno sorrisi posticci. E se il prezzo da pagare è quello di venire bollati come musoni pazienza, il sistema nervoso ringrazierà.

La ricerca condotta dallo psicologo Brent Scott dimostra infatti che il finto sorriso diretto a colleghi o a clienti può portare all’esaurimento emotivo di chi è costretto a esibirlo. In particolare, Scott ha studiato le reazioni psicologiche di un campione di autisti di autobus, obbligati per contratto a interagire sorridendo con i passeggeri, notato anche che lo sforzo di proiettare un buon umore non sentito risulta più oneroso e deprimente per le donne che per gli uomini.

Ma è davvero così elementare il rapporto di causa-effetto tra emozioni ed espressioni facciali? La professoressa Raffaella Rumiati, docente di Neuroscienze Cognitive alla SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste), spiega che esistono due tipi di emozioni, quelle primarie (o fondamentali) che sono paura, rabbia, sorpresa, tristezza, disgusto e gioia, e quelle complesse (o sociali), ovvero compassione, imbarazzo, vergogna, colpa, orgoglio, invidia, gratitudine, indignazione e disprezzo. Un modo semplice per studiarle è proprio quello di osservare le espressioni facciali degli individui. "L’emozione – spiega la Rumiati – è la risposta complessa di un organismo a un dato stimolo. Il nostro cervello, come quello di altri animali, è predisposto a reagire agli input emozionali con un determinato repertorio di azioni: alla vista di un serpente trasaliamo, alla vista di un cibo chiaramente avariato ci disgustiamo, e così via". Una risposta emotiva comporta dunque una modificazione interna dell’organismo (ad esempio il battito cardiaco) o di una caratteristica esterna, come appunto l’espressione facciale o l’intonazione della voce. "Nel caso delle emozioni fondamentali – continua la neuroscienziata – si tratta di risposte inevitabili, automatiche. Tuttavia, avendo accumulato negli anni una certa dimestichezza con le emozioni (cominciamo da piccoli a sorridere, spaventarci), col tempo riusciamo a fingere di provarle. Ma mostrare un’espressione felice non significa esserlo davvero, perché naturalmente mancano i correlati fisiologici interni". E’ dunque possibile, precisa l’esperta, che lo sforzo che si compie per adottare un’espressione finta eroda risorse cognitive e provochi una sostanziale riduzione dell’attenzione.

E le donne, secondo la ricerca americana, sarebbero le più vulnerabili. L’articolo evidenzia infatti una differenza di genere: l’umore femminile risente di più di questa falsificazione rispetto a quello dei maschi e questo potrebbe spiegare perché le donne sono più rinunciatarie sul lavoro. "Secondo il dottor Scott – conclude la Rumiati – le donne sorridono di più degli uomini non perché più felici ma perché pensano che da loro ci si aspetti una maggiore reattività emotiva. Sono scettica a proposito di queste differenze. Probabilmente le donne ricomprono posizioni meno prestigiose e sicure. La diversità dipende non dal sesso ma dallo status".
 

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