1960-2010, il coraggio di costruire

Le nazioni, le famiglie e le squadre di calcio provano nostalgia per il passato prossimo. Hanno l’impressione che, prima, tutto andasse bene. Se non proprio bene, comunque meglio. L’Italia non fa eccezione. Dopo un’estate meteorologicamente incomprensibile e politicamente cattiva, dove la mondanita’ ha i sorrisi da Photoshop e il tormentone e’ la battuta di due […]

Le nazioni, le famiglie e le squadre di calcio provano nostalgia per il passato prossimo. Hanno l’impressione che, prima, tutto andasse bene. Se non proprio bene, comunque meglio. L’Italia non fa eccezione. Dopo un’estate meteorologicamente incomprensibile e politicamente cattiva, dove la mondanita’ ha i sorrisi da Photoshop e il tormentone e’ la battuta di due ragazze sulla spiaggia di Ostia, e’ normale guardare indietro con rimpianto. Non siamo solo ripetitivi: siamo bloccati. Litighiamo per le stesse cose, nello stesso modo, con le stesse persone. L’Italia non e’ stata mai perfetta. Ma quasi sempre era un’imperfezione ottimista.

Nell’estate 1960 le Olimpiadi di Roma segnavano la consacrazione di un Paese che ce l’aveva fatta: quindici anni dopo una sconfitta umiliante, l’Italia faceva registrare un aumento del Pil ? si tenga saldo, ministro Tremonti ? del 8,3%. Mina cantava Il cielo in una stanza e quella stanza si poteva affittare: lo stipendio di un operaio era di 47 mila lire al mese e un giorno di pensione sull’Adriatico costava 600 lire. A Roma, quell’estate, si svolsero le Olimpiadi. David Maranis, premio Pulitzer, scrive: Furono i Giochi che cambiarono il mondo . Sponsorizzazioni e televisioni, russi e americani, spie e competizioni, doping e rivoluzioni, gli occhiali da sole di Livio Berruti, i piedi nudi di Abebe Bikila e la sfrontatezza di un pugile diciottenne, Cassius Clay, il futuro Mohammed Ali, la prima pop star sportiva della storia. E l’Italia era li’, tramonti romani e gente in festa, teatro di tutto questo.

Non era il paradiso. Era il solito purgatorio: ma le anime, allora, sognavano. Nel 1960 transitarono ben tre governi ? Segni 2, Tambroni 1, Fanfani 3 ? ma i politici, mentre litigavano, facevano: leggi, case, autostrade. Migrazioni interne, idee nuove, il cardinale Ottaviani che attaccava i socialisti novelli anticristi. Neppure i drammatici scontri di Genova ? centomila manifestanti contro il congresso del Movimento sociale italiano ? riuscirono a cambiare l’umore nazionale, raccontato da Gabriele Salvatores nel suo film 1960 attraverso immagini televisive del tempo (sara’ fuori concorso il 5 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia).

Il buonumore delle nazioni e’ una cosa seria. Non dipende solo dal fatto di vivere in tempo di pace: questa e’ una fortuna di cui godiamo da tempo, ma l’apprezza solo chi ha piu’ di settant’anni, e ricorda la guerra in casa. L’umore nazionale non e’ neppure soltanto una questione di potere d’acquisto. Da cosa dipende, allora? Semplice: dalla sensazione d’essere dentro una storia che va avanti.

Senza questa capacita’ narrativa, una comunita’ non vive: sopravvive. Magari si diverte, spende e spande per mascherare incertezza e delusione. Ci sono abitudini italiane che hanno l’aria d’essere tattiche consolatorie. Penso alle ubique allusioni sessuali (pubblicita’ in testa), non seguite da un’altrettanto strabiliante esuberanza sessuale; all’ossessione per qualsiasi gadget o al fatto che meta’ dei maschi adulti siano diventati gourmet, gli altri ciclisti e giardinieri (la libido prende strade strane).

L’Italia del 1960 si sentiva una protagonista in cammino. I genitori faticavano pensando: i nostri figli staranno meglio. Nell’Italia del 2010 sappiamo tutti ? padri, madri, figli ? che la nuova generazione precarizzata stara’ peggio, e gia’ ha bisogno di aiuto (per la macchina, per la prima casa). un ribaltamento innaturale: la nazione che lo accetta e’ nei guai.

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