Waterpod, l’isola artificiale a impatto zero

Dateci una zattera e salveremo il mondo. piu’ o meno cosi’ che Mary Mattingly ha promosso il suo progetto l’anno scorso, quando “The Waterpod” era ancora solo un articolato disegno su grandi fogli da architetto. Ha raccolto fondi e trovato sponsor, alla fine ce l’ha fatta. La visionaria designer si e’ circondata di una piccola […]

Dateci una zattera e salveremo il mondo. piu’ o meno cosi’ che Mary Mattingly ha promosso il suo progetto l’anno scorso, quando “The Waterpod” era ancora solo un articolato disegno su grandi fogli da architetto. Ha raccolto fondi e trovato sponsor, alla fine ce l’ha fatta. La visionaria designer si e’ circondata di una piccola comunita’ galleggiante, una ventina di artisti, architetti e ingegneri, e tutti insieme sono salpati. La data del varo e’ stata scelta simbolicamente: il primo maggio, per ricordare l’impresa dell’esploratore Henry Hudson che, esattamente 400 anni prima, costeggio’ Manhattan con il suo equipaggio, risalendo quel corso d’acqua che poi prese il suo nome. Come il vecchio navigatore inglese anche loro si sentono dei pionieri, sperano di contribuire all’evoluzione sostenibile del pianeta e di influenzare le coscienze.
Waterpod e’ una piccola isola artificiale di circa 10×30 metri, autosufficiente energicamente grazie ai pannelli fotovoltaici, alle pale eoliche e al piccolo orto con tanto di galline che, mal di mare permettendo, forniscono l’ovetto mattutino. La fondatrice lo definisce “un nuovo habitat umano nell’epoca del global warming”, spazio vitale completamente indipendente dalla terra ferma. Anche l’acqua e’ quella del fiume, purificata da un sistema di filtraggio. Coltivano 20 tipi di verdure diverse, ma Mary, che negli ultimi due mesi e’ scesa solo 4 volte, confessa: “Ogni tanto accettiamo cibo che ci viene offerto dalle persone che vengono a farci visita, a qualcuno qui manca tanto il caffe'”.

Waterpod e’ molto piu’ che una provocazione basata sulla visione catastrofista dell’innalzamento delle acque, interpretata al cinema da Kevin Costner in “Waterworld” (1995). un esperimento di vita nomade in una piccola comunita’, a impatto zero, che potenzialmente puo’ dar vita a sistemi di comunita’ in quanto le isole possono moltiplicarsi. Sulla chiatta sono collocate tre strutture di forma semisferica: la prima e piu’ grande e’ dedicata alle attivita’ artistiche e ai workshop, la seconda e’ riservata all’agricoltura verticale e la terza e’ la zona notte. Ogni abitante-navigante e’ coinvolto nelle attivita’ per la sopravvivenza del gruppo, secondo le proprie attitudini.
Tutti devono saper leggere le rotte, imparare i principi base della navigazione e coltivare l’orto. Tutti sono abbastanza folli (o lungimiranti?) da pensare di poter vivere a pelo d’acqua: “Il bello ? sostengono – e’ che si puo’ ancorare vicino alla zona di lavoro ed evitare cosi’ il traffico quotidiano”.
Sara’? Quel che e’ certo e’ che i giornali di mezzo mondo stanno parlando dell’audace progetto abbinandolo ai dati sul surriscaldamento globale e questo e’ certamente un punto a loro favore. Piu’ si alzera’ la temperatura, piu’ si alzera’ il livello dei mari: gli scenari sono inquietanti proprio perche’ verosimili. Tra pochi giorni il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon partira’ diretto al Polo Nord, per andare a verificare di persona lo stato dei ghiacci. Waterpod continuera’ il suo viaggio verso il Queens e poi si fermera’ in attesa che arrivino nuovi fondi: “Speriamo che possa trasformarsi in una piccola scuola o in una residenza per artisti – conclude Mary fiduciosa – ho gia’ in progetto una seconda casa mobile, sarebbe importante continuare a parlarne”.

In questo momento sono ancorati a Staten Island, il piu’ verde dei cinque distretti di New York, non lontano da dove si trova il deposito con i circa 2 milioni di tonnellate di detriti di Ground Zero: e’ un caso, ma ci ricorda che il clima, da quest’anno, e’ stato inserito dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato Americano tra le minacce alla sicurezza nazionale, esattamente al pari di Bin Laden.

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