Storia della strana coppia Napolitano e Monti: due presidenti che provano a traghettare lItalia fuori dal baratro. E verso la Terza repubblica.

Quando nel 1965 il ventenne Mario Monti si laurea a pieni voti alla Bocconi, tempio della cultura liberale made in Italy, Giorgio Napolitano è già deputato del Pci da 12 anni e ricopre l’incarico di segretario della federazione di Napoli, fortino delle truppe amendoliane, l’ala destra dei comunisti italiani. Distinti e distanti per età, 18 […]

Quando nel 1965 il ventenne Mario Monti si laurea a pieni voti alla Bocconi, tempio della cultura liberale made in Italy, Giorgio Napolitano è già deputato del Pci da 12 anni e ricopre l’incarico di segretario della federazione di Napoli, fortino delle truppe amendoliane, l’ala destra dei comunisti italiani. Distinti e distanti per età, 18 anni di differenza; radici territoriali, un lombardo nato a Varese e un napoletano di via Monte di Dio; orizzonte politico, un liberale ortodosso inchiodato ai «vantaggi della società aperta» e un compagno che aveva giustificato l’invasione dei carri armati sovietici a Budapest per «zelo conformistico»; in realtà Monti e Napolitano rivisti attraverso la filigrana delle rispettive biografie sono molto più simili di quanto si possa immaginare. Una strana coppia, due pezzi unici della riserva indiana dell’Italia repubblicana diventati, insieme, i traghettatori di un Paese che tenta di uscire dal baratro e torna a scommettere sul tavolo di quella partita, la modernizzazione, dove ha sempre perso da almeno trent’anni.

Innanzitutto parliamo di due Grandi Borghesi, moderati nel dna, nello stile, e perfino nel profilo umano. Per Napolitano la politica è una scelta di vita, che lo distacca da un destino di avvocato meridionale e da un cenacolo di intellettuali napoletani (da Raffaele La  Capria a Francesco Rosi, da Giuseppe Patroni Griffi ad Antonio Ghirelli) e lo trascina nel gorgo della catastrofe dell’ideologia e della violenza timbrata falce e martello, laddove, come ha scritto lo stesso capo dello Stato con toni di misurata autocritica, «chi è stato comunista, anche nel modo più indipendente, è stato partecipe della sconfitta». Il maestro di Napolitano é stato Giorgio Amendola, che a Napoli chiamavano‘o chiatto, per distinguerlo dall’allievo, Giorgio ‘o sicco, ma alla durezza stalinista dell’avversario storico di Pietro Ingrao, leader  e icona della sinistra comunista, nel corso degli anni Napolitano ha contrapposto la sua cautela, il suo tocco aristocratico, con quella testa fotocopia di Re Umberto, la sua prudenza nelle analisi come negli scontri all’interno di un partito dove la disciplina era un dogma. Per Monti, invece, la pacatezza coltivata in una brillante carriera accademica, circondato sempre da potenti colleghi bocconiani, e l’aplomb da rigoroso studioso, gli hanno consentito di navigare con le stellette di un ufficiale nel ponte di comando, senza mai correre il rischio di un naufragio, in quelle acque agitate, e talvolta torbide, dei poteri forti del capitalismo non solo italiano. Specie quando, sono sue parole «sono diventati deboli, e l’intera società italiana si è trovata vittima del male oscuro della dittatura del breve termine». Entrambi, Re Giorgio e Super Mario, sono stati accusati di mancanza di coraggio nei loro percorsi paralleli , di un esercizio della cautela ridotto perfino a opportunismo, di un’incapacità ad affrontare le battaglie con la sciabola più che con il fioretto: ma sono giudizi per i quali è facile scivolare nei luoghi comuni e anche in una letteratura di cui un uomo pubblico, una volta affibbiata l’etichetta,  fa fatica a liberarsi. D’altra parte, a proposito di scontri con titani, la strana coppia in epoche diverse ne ha affrontati, e non pochi. Napolitano sfidò, a modo suo ovviamente, Enrico Berlinguer, il suo moralismo piuttosto astratto come l’inesistente prospettiva di un  post- comunismo come terza via tra comunismo e socialdemocrazia, la lotta sorda e distruttiva per la sinistra italiana contro Bettino Craxi e lo spregiudicato, ma autentico, riformismo socialista del leader del Psi. Monti, anche lui con il suo approccio soft, da commissario europeo alla Concorrenza tirò fuori gli artigli a Bruxelles quando si trattò di schierare la commissione contro la cupola americana Microsoft di Bill Gates, un potere globale e fortissimo, e avviò un coraggioso procedimento per le spericolate e prepotenti manovre di Gates in materia di concorrenza sul mercato.

Forse anche per queste battaglie, non proprio giochi per ragazzi e senza rischi, al momento opportuno Monti e Napolitano si sono ritrovati con la stessa bussola tra le mani: l’Europa. E qui siamo a un passaggio fondamentale per capire fino in fondo l’attuale convergenza tra due personaggi così lontani nelle biografie e così vicini nella strategia di lungo periodo. Per il migliorista (cioè uno che vuole migliorare il capitalismo e non distruggerlo) Napolitano, l’Europa ha sempre rappresentato l’unica vera sponda per il post comunismo riformista: un ancoraggio con quella socialdemocrazia europea che i compagni che hanno contato nell’album di famiglia del  Novecento italiano, da Palmiro Togliatti a Enrico Berlinguer, hanno sempre guardato con diffidenza se non con disprezzo. Per l’accademico liberale e praticante cattolico Monti, l’Europa può e deve esistere solo se è unita e forte, e l’Italia può uscire dalla sua crisi  profonda soltanto se e quando conterà al traballante tavolo dell’Unione europea. Sono due ricette che si sovrappongono in un gioco di specchi e di simmetria politica, altro che tecnica, due programmi che immaginano la stessa Italia, gli stessi equilibri di potere, le stesse coordinate transnazionali, due visioni del mondo con molti contatti di un moderno e aggiornato pensiero liberale. E l’identità di vedute dei due alleati che oggi, di fatto, guidano il commissariamento del Paese con i partiti trasformati in cantieri in via di ricostruzione e in spettatori attivi di una complicata uscita dal tunnel, è maturata proprio a Bruxelles ed a Strasburgo, le capitali dell’Europa che c’è ma non si vede. Monti e Napolitano hanno lavorato, infatti, fianco a fianco dal 1999 al 2003 quando il primo era commissario Ue e il secondo europarlamentare e presidente della commissione Affari Costituzionali. In particolare durante i lavori della Convenzione che doveva disegnare una costituzione europea poi cestinata i due, Re Giorgio e Super Mario, si incontravano di continuo, si scambiavano opinioni e giudizi, coltivavano un’amicizia oltre che una reciproca stima, facevano lunghe colazioni di lavoro al ristorante dell’edificio Churchill di Strasburgo. In quegli anni i due colleghi italiani sono diventati la coppia che oggi governa l’Italia in perfetta simbiosi.

Se in Europa la convergenza tra Monti e Napolitano è stata assoluta dal primo momento, rispetto all’America le due strade si sono incrociate nel tempo, perché i punti di partenza erano agli antipodi. Nel 1975 Napolitano subì il veto di Henry Kissinger e dovette aspettare tre anni prima di atterrare a Washington, questa volta con il sì del potente segretario di Stato americano piegato anche dalle abili pressioni di Giulio Andreotti: e così nell’aprile del 1978 per la prima volta un comunista italiano entrava negli Stati Uniti. Si chiamava appunto Giorgio Napolitano, ministro degli Esteri dell’allora Pci, invitato a tenere un giro di conferenze nelle migliori università americane. Quelle stesse università dove invece Monti è sempre stato di casa, già dopo la laurea ed ai massimi livelli di relazioni accademiche e professionali: la specializzazione di Super Mario, per esempio, è targata Yale, dove lui ha studiato con James Tobin, premio Nobel per l’Economia. E oggi, sepolto il comunismo con l’anticomunismo, la Guerra Fredda con il Muro di Berlino, entrambi, Monti e Napolitano, vantano eccellenti credenziali negli States. Il capo del governo ha fatto parte di quella Trilateral, che i vertici del Pci consideravano un covo di nemici del proletariato, ed è stato nel giro alto della Goldman Sachs, la banca d’affari che sforna (o comanda) ministri del Tesoro americani, mentre il Presidente della Repubblica ha appena ricevuto un omaggio del New York Times che nessun uomo politico italiano è stato mai capace di incassare dai tempi di Alcide De Gasperi. Il quotidiano che non manca mai sulle scrivanie degli americani che contano ha incornato Re Giorgio (testuale) come “il silenzioso power broker “dell’era post-Berlusconi” . Della serie: auguri e figli maschi.

Monti e Napolitano, infine, hanno alcune spigolature nel carattere quasi da gemelli siamesi. Sono pignoli, affamati di numeri certi e certificati, misurano le parole una per una, manifestano stili di vita sobri e di basso profilo. Un’intervista con Napolitano, quando riuscivamo ad ottenerla, era un tormento per noi cronisti: bisognava mettere nel conto la discussione su una virgola, su un articolo, su una singola parola. E c’era il rischio di essere accusati, sempre con parole misurate, di superficialità o di sciatteria nel riportare il suo pensiero virgolettato. In un’intervista con Monti, altra cosa non semplice da ottenere, non potevi mai distrarti: la cosa più importante per fare un titolo efficace riuscivi a fargliela dire dopo un’oretta di domande e risposte. Non a caso, oggi, la comunicazione di Monti da palazzo Chigi passa per la supervisione di Napolitano dal Quirinale. Sono due palazzi attorno ai quali si gioca il destino politico dell’Italia e il futuro della coppia: Super Mario potrebbe essere il successore di Re Giorgio. E nessuno potrebbe dirsi stupito o colto di sorpresa.

 

 

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