Sprechi: La carica delle municipalizzate

di Sergio Rizzo Sono 650 e prendono lo stipendio a singhiozzo. Certo, il loro non è un caso isolato. Imprese in difficoltà, soprattutto di questi tempi, in Italia ce ne sono a bizzeffe. Ma se la ditta in questione è un’azienda pubblica che gestisce un servizio delicato come il trasporto, allora la faccenda è diversa. […]

di Sergio Rizzo

Sono 650 e prendono lo stipendio a singhiozzo. Certo, il loro non è un caso isolato. Imprese in difficoltà, soprattutto di questi tempi, in Italia ce ne sono a bizzeffe. Ma se la ditta in questione è un’azienda pubblica che gestisce un servizio delicato come il trasporto, allora la faccenda è diversa. Succede a Messina, dove i dipendenti dell’Atm, ormai allo stremo, hanno mandato una lettera disperata al sindaco Giuseppe Buzzanca e agli assessori che si conclude così: «Cosa accadrà domani se voi politici continuerete a turbinare i pollici, non lo sappiamo… potete giocare all’infinito ma nel frattempo PAGATECI». Sorvoliamo, ovviamente, sulla qualità del servizio. Sarebbe troppo lungo indagare a fondo sulle cause che hanno portato Messina (e i messinesi) a questo punto. Anche se non si potrebbe, in ogni caso, che partire dalle enormi responsabilità di una classe dirigente locale raramente all’altezza della situazione. Qui come altrove. I buchi nei bilanci
Il fatto è che una parte consistente degli sprechi sta nella cattiva amministrazione dei servizi pubblici in mano agli enti periferici. Con oneri elevati, in rapporto a una qualità spesso scadente: di cui fanno le spese i cittadini, e talvolta, come nel caso di Messina, anche gli stessi lavoratori.
È questo un capitolo purtroppo mai tenuto in debita considerazione quando si parla di tagli ai costi della politica. Mentre invece proprio da qui potrebbero venire i risparmi più consistenti. Un caso rende bene l’idea. Nella manovra economica è riaffiorato il tormentone dell’Istituto per il commercio estero sulla cui utilità, da anni, si nutrono dubbi. Fra le varie ipotesi è stata balenata anche quella dell’abolizione dell’Ice. Operazione che farebbe risparmiare una cifra pure consistente: ma quanti sanno che si tratta di una somma pari ad appena un quarto del buco aperto negli ultimi anni nei conti dell’Atac, la municipalizzata dei trasporti della città di Roma?
Nei giorni scorsi il consiglio di amministrazione, reduce dai tumultuosi avvicendamenti al vertice, ha approvato un bilancio che espone 96 milioni di euro di perdite. Al momento in cui questo articolo va in stampa il documento contabile integrale non è ancora ufficialmente disponibile: bisogna quindi attenersi alle informazioni fornite dall’azienda, che spiegano come «il risultato di esercizio complessivo (Ansa del 14 giugno scorso)» sia «negativo» per«319,1 milioni».
Se si somma la perdita netta di gestione registrata nel 2010 a quella del 2009 (altri 91,2 milioni) e alle «perdite portate a nuovo» dagli esercizi precedenti (cioè i buchi mai tappati) si arriva alla sbalorditiva cifra di 800 milioni di euro.
Gli organici
D’altra parte, che la situazione dell’Atac sia insostenibile, lo dice chiaramente un numero: 13 mila. È quello dei dipendenti. L’azienda dei trasporti della città di Roma paga tanti stipendi quanti, più o meno, l’Alitalia. Per non parlare dell’andazzo di cui i giornali hanno diffusamente riferito negli ultimi mesi: assunzioni clientelari a gogò di amici e parenti, profumatamente retribuiti e destinatari di garanzie inverosimili, come cinque anni di stipendio garantiti nella sola ipotesi di un cambio di mansione.
E l’Atac è un’azienda che svolge un servizio pubblico. Ma quante società hanno i Comuni e gli altri enti locali che sono state costituite per scopi spesso discutibili, con l’obiettivo di garantire poltrone o posti di lavoro inutili, se non in tempo di elezioni? Certamente più dei famosi «enti inutili» sui quali si accaniscono periodicamente i rigoristi (senza che a questo accanimento corrispondano risultati decisivi).
L’esercito in campo
I dati dell’Anci, da questo punto di vista, sono illuminanti. I Comuni italiani, circa 8 mila, controllano 3.662 imprese. Ma di queste, quelle che erogano servizi pubblici sono appena un terzo: 1.266. E le altre? Ben 537 si occupano di «infrastrutture ed edilizia». Altre 266 di «cultura, turismo e tempo libero». E 140 di «istruzione, ricerca e sviluppo». Poi ce ne sono ancora 1.453 di «altri servizi», fra cui le farmacie comunali.
In una indagine condotta lo scorso anno la Corte dei conti ha accertato che in Italia esistono 5.860 organismi di vario genere partecipati da 5.928 fra Comuni e Province. Di questi, ben 3.787 hanno una forma giuridica societaria. Le società per azioni sono 1.635, mentre quelle a responsabilità limitata raggiungono la cifra di 1.402. Ci sono poi 556 consorzi e 194 cooperative.
Rosso perenne
In una precedente inchiesta i magistrati contabili hanno calcolato che questo incredibile reticolo di enti e imprese garantisce la bellezza di 38 mila poltrone, fra consigli di amministrazione (23 mila), collegi sindacali (12 mila) e incarichi «apicali» (almeno 3 mila), come si definiscono in gergo. Da notare poi che in una simile galassia, secondo un’analisi riferita al periodo compreso fra il 2005 e il 2008) ci sono 568 società sempre costantemente in perdita. Dice la Corte dei conti che «la percentuale più alta» di queste imprese con il bilancio negativo si riscontra «in Basilicata», con il 40%, «seguita dal Molise e dalla Sardegna».
I magistrati contabili sottolineano quindi che sono i settori diversi dai servizi pubblici locali quelli dove si concentrano le società perennemente in deficit: sono il 63,3% del totale. Il record assoluto, neanche a farlo apposta, spetta alle «attività culturali e di sviluppo turistico».
Inevitabile osservare come l’esito del referendum sull’acqua, che riguardava in realtà tutti i servizi pubblici locali, abbia involontariamente allontanato ogni ipotesi di serio ridimensionamento di questo incredibile mondo. Ma questa è un’altra storia.

 

 

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