Si decide in base alle scorciatoie

Gli esseri umani ritengono di essere razionali, ma nella realtà sono molto meno analitici di quanto tendano a credere. Lo dimostra la modalità attraverso la quale prendono le decisioni, che non è mai completamente razionale, come afferma la professoressa Gabriella Pravettoni, docente di Psicologia cognitiva e di psicologia delle decisioni dell’Università degli studi di Milano, […]

Gli esseri umani ritengono di essere razionali, ma nella realtà sono molto meno analitici di quanto tendano a credere. Lo dimostra la modalità attraverso la quale prendono le decisioni, che non è mai completamente razionale, come afferma la professoressa Gabriella Pravettoni, docente di Psicologia cognitiva e di psicologia delle decisioni dell’Università degli studi di Milano, titolare di una relazione proprio su questo argomento alla settima conferenza mondiale The future of Science, intitolata quest’anno Mind: the Essence of Humanity, il 20 settembre a Venezia alla Fondazione Giorgio Cini sull’isola di San Giorgio Maggiore.

L’IMPORTANZA DELL’INTUITO – Prendere decisioni è un’attività che ciascuno ripete ogni giorno centinaia di volte, dalle più semplici, ad esempio cosa indossare la mattina quando ci si alza, cosa mangiare o acquistare, alle più complicate, come certe decisioni professionali. Eppure, nonostante si tratti di un processo ripetuto all’infinito, alla fin fine il compito è portato a termine più che altro attraverso l’uso dell’intuito. Se volesse davvero fare una scelta completamente razionale, infatti, un individuo dovrebbe aver prima esaminato in dettaglio tutte le variabili possibili e aver infine scelto traendo conclusioni strettamente logiche. Ma nella realtà questo non accade mai, e piuttosto si decide attraverso le cosiddette «euristiche», ovvero attraverso scorciatoie cognitive che portano a decidere secondo l’impressione generale che ci si è fatti, quindi in maniera sostanzialmente intuitiva. Spiega la professoressa Pravettoni: «Le limitate capacità di attenzione e di memoria e le costrizioni percettive forzano le persone a dipendere da euristiche che semplificano il processo decisionale, e che possono essere descritte come regole empiriche o strategie di scorciatoia cognitiva che assistono le persone nella presa di decisione». Questo modo di prendere decisioni fa parte della vita di tutti i giorni, ed è caratterizzato dall’interruzione volontaria del processo di raccolta di informazioni, non appena ci si è fatti l’idea di aver trovato una qualche opzione soddisfacente. Tra l’altro gli studi indicano che le scelte basate sulle euristiche generano una maggiore soddisfazione rispetto alle scelte effettuate da chi vorrebbe forzarsi all’interno di una schema razionale, prendendo analiticamente in considerazione tutte le possibilità prima di decidere. «I ricercatori hanno chiamato i primi “soddisfacentisti”, i secondi “massimizzatori”» dice ancora la professoressa Pravettoni. Ma questi ultimi «spesso si sentono peggio, e alla fine mostrano un maggior rammarico, e sono meno felici dei soddisfacentisti».

IL PARADOSSO – È una specie di paradosso, per cui nel processo decisionale basato sulle euristiche, si scopre che alla fine il meno è di più. Le cose si fanno un po’ più complicate, tuttavia, quando questi principi sono applicati ad ambiti in cui le conseguenze delle decisioni possono andare a interferire con la vita delle persone. Ad esempio, le decisioni prese dai medici. Anche i medici usano spesso la via semplificata delle euristiche, e in una ricerca in via di pubblicazione sull’European Journal of Internal Medicine, Gabriella Pravettoni e Alessandra Gorini, ricercatrice, che dirige il Centro interdipartimentale di ricerca e intervento sui processi decisionali dell’Università degli studi di Milano, chiariscono che ci sono diversi meccanismi all’opera quando un medico prende le sue decisioni sulla base del modello euristico. Ad esempio, il medico può sovrastimare la frequenza di un certo disturbo se recentemente ne ha osservati più d’uno, e tendere quindi a fare più facilmente quella stessa diagnosi, anche quando il quadro clinico dovrebbe essere interpretato diversamente. Oppure c’è il fenomeno del cosiddetto «ancoraggio», così descritto dalle due studiose: «È la tendenza a concentrarsi su caratteristiche salienti emerse nelle primissime fasi del processo diagnostico, senza la successiva capacità di modificare l’impressione iniziale alla luce di ulteriori informazioni». Infine, può esserci il cosiddetto «bias di conferma», la tendenza a notare e a dare importanza principalmente a quelle informazioni che confermano le proprie aspettative e convinzioni, tralasciando invece quelle che potrebbero portare verso un’altra strada, che magari è però invece proprio quella giusta.

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