Processo ingolfato, quanto costa al Paese

Sarà perché, come scriveva Salvatore Satta, il processo è un «mistero». Fatto sta che la giustizia penale non riesce a decollare, nonostante le attenzioni della politica. Nell’89 entrò nelle aule giudiziarie il "processo alla Perry Mason", nel 2000 il "processo giusto", ora si parla di "processo breve" o "europeo": cambiano le etichette, le norme (83 […]

Sarà perché, come scriveva Salvatore Satta, il processo è un «mistero». Fatto sta che la giustizia penale non riesce a decollare, nonostante le attenzioni della politica. Nell’89 entrò nelle aule giudiziarie il "processo alla Perry Mason", nel 2000 il "processo giusto", ora si parla di "processo breve" o "europeo": cambiano le etichette, le norme (83 leggi dall’89), ma non la realtà: ogni anno la prescrizione fulmina circa 150mila processi. Anche di più, quando arrivano tagli improvvisi dei termini.

Con buona pace della certezza del diritto, della certezza della pena, della tutela delle vittime. E delle casse dello Stato. La giustizia è un servizio, ma è anche un potere. E secondo una regola ferrea della politica, ha scritto di recente Luciano Violante , «nessun potere è disposto a riconoscere a un altro i mezzi per funzionare meglio se non sono chiari i presupposti e i confini della sua azione». Se è così, la politica non sarà mai disposta a far funzionare la giustizia nell’interesse dei cittadini se prima non avrà definito i poteri della magistratura e messo se stessa in sicurezza. Ma il fisiologico conflitto tra politica e giustizia è ormai diventato patologico. E a farne le spese è il processo penale.

 

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C’è sempre qualcosa di nuovo, anzi, di antico nella politica giudiziaria. Che individua le cause, sfiora le soluzioni, ma poi imbocca strade diverse. Le cause: ogni anno oltre 3 milioni di nuovi fascicoli piombano sulle scrivanie di 2.103 pm e 2.481 giudici (più altri 828 occupati anche nel civile) che hanno di fronte un esercito di 230mila avvocati (record in Europa). I magistrati italiani sono tra i più produttivi del continente e smaltiscono circa 1.200 processi ciascuno, per un totale di 3 milioni 318.246, di poco inferiore ai nuovi arrivi. Andrebbe bene se la quantità non andasse a scapito della qualità, ma soprattutto se non ci fosse la zavorra dell’arretrato, che resta attestato su 3,29 milioni di procedimenti. La procedura è farraginosa, lunga, spesso inutilmente formalistica e contraddittoria, costellata da tempi morti e terreno fertile per tattiche dilatorie. C’è moltissimo da arare, semplificando, informatizzando, trovando forme alternative e rapide di definizione, che in altri Paesi chiudono dal 20 al 50% dei processi. Ma il vizio d’origine è la pretesa della politica di trasformare in reato ogni fatto che abbia disvalore sociale, allestire un processo e punirlo con il carcere. Sulla repressione penale si scarica la risposta ad ogni problema sociale (disagio mentale, immigrazione, droga), ingolfando il processo e il carcere.

Le soluzioni: non si investe più nella giustizia e i fondi hanno toccato il minimo storico dal 2000 (1,35% del bilancio dello Stato). A risorse invariate, tutti concordano sulla necessità di depenalizzare i reati minori, sottraendoli alla macchina del processo da riservare ai casi più gravi. Condivisa è anche la necessità di un diritto penale minimo, con pene alternative al carcere, efficaci quanto e forse più della galera. Sul fronte organizzativo, l’imperativo è razionalizzare le risorse esistenti, tagliando i Tribunali minori con meno di 20 magistrati (sono 88 su 165).
Le strade imboccate: leggi settoriali, contingenti, contraddittorie, approvate senza valutazioni d’impatto. Norme manifesto come il «processo breve». O leggi come la ex Cirielli, che ha tagliato la prescrizione, o come il «processo breve», che ci riprova. Risultato: una giustizia a due velocità. La descrive bene, con un’immagine efficace, il pm Paolo Ielo: «Al piano terra del Tribunale di Milano si trattano gli arresti in flagranza, i "reati di strada", droga, rapine, violazione della Bossi-Fini: il processo è rapido, ogni giorno vengono comminati svariati anni di galera, la prescrizione non esiste anche perché gli imputati sono poveri e non possono permettersi un avvocato di fiducia. Al terzo piano si trattano i reati di aggiotaggio, corruzione, falso in bilancio, per i quali non è previsto l’arresto in flagranza, gli imputati non sono i "meno abbienti" del piano terra, gli anni di galera comminati ogni giorno sono di gran lunga inferiori, il processo è più garantito e molti reati vanno in prescrizione perché la ex Cirielli ne ha ulteriormente diminuito i tempi». Insomma, giustizia rapida ai piani bassi, lenta ai piani alti.

Depenalizzazione, revisione della geografia giudiziaria, eliminazione dei formalismi inutili del processo sono proposte presenti nei programmi elettorali delle forze politiche. Che vinte le elezioni, però, le lasciano nel cassetto. Giorni fa, il ministro della Giustizia Angelino Alfano se ne è ricordato e le ha «offerte» all’opposizione in cambio della disponibilità sulla riforma costituzionale della giustizia che dovrà «riequilibrare i poteri».Mancano meno di due anni alla fine della legislatura. Ne sono già trascorsi tre, segnati da un conflitto esasperato tra politica e giustizia. La maggioranza ormai teorizza apertamente che la «priorità» da risolvere è l’«anomalia giudiziaria» della «persecuzione» di alcuni magistrati nei confronti del premier. E così, finora il Parlamento è stato costretto a discutere ben 9 iniziative legislative dirette ad arginare le pendenze giudiziarie di Silvio Berlusconi. Alcune devastanti per il processo penale, fermate anche grazie alla moral suasion del Quirinale.

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