Le promesse tradite del capitalismo

  Che cos’è, naturalmente, il capitalismo? Qual è l’essenza cui tende fisiologicamente? L’austerità e il rigore? O l’abbondanza e il lusso? La risposta è, inequivocabilmente: ambedue le cose. Per realizzare concretamente questa fatale ambivalenza, esso è costretto a ripartirla: austerità per gli uni, prosperità per gli altri. Nelle religioni dell’Occidente, il giudaismo, il cattolicesimo, il […]

 

Che cos’è, naturalmente, il capitalismo? Qual è l’essenza cui tende fisiologicamente? L’austerità e il rigore? O l’abbondanza e il lusso? La risposta è, inequivocabilmente: ambedue le cose. Per realizzare concretamente questa fatale ambivalenza, esso è costretto a ripartirla: austerità per gli uni, prosperità per gli altri. Nelle religioni dell’Occidente, il giudaismo, il cattolicesimo, il protestantesimo, questa sua contraddittoria ambiguità è inequivocabilmente condannata. In linea di principio. Salvo quelle transazioni e quegli adattamenti che la realtà dei fatti impone necessariamente. È così che la ricchezza prodotta dal capitalismo finisce per essere tollerata dalla cultura cattolica giansenista, o addirittura accolta dal calvinismo come prova della benevolenza divina.
Prima del capitalismo questo problema di incompatibilità non si poneva. Nelle società antiche il naturale impulso all’arricchimento era soddisfatto semplicemente dalla rapina: di schiavi di donne, di oro. Sulla rapina fu fondato per secoli il dominio romano. Nei secoli successivi le società dell’alto medioevo realizzarono una economia dell’autosufficienza basata sulla “corte”, nella quale la prosperità dei padroni (pars domenica) era sostenuta dall’austerità (oppressione e sfruttamento senza limiti) dei contadini (pars massaricia). Fu verso l’anno Mille che intervenne in Europa la svolta dalla quale ebbero origine più tardi il capitalismo e la democrazia, le due grandi forze della modernità. La società aristocratica fu travolta dalla borghesia e l’economia chiusa dal commercio internazionale.
Da allora non fu più necessario compensare la ricchezza degli uni con la miseria degli altri. Grazie alla sostituzione dei rapporti di forza con quelli di mercato, fu possibile realizzare una crescita generale dell’economia. Ovviamente, la ripartizione della crescita era ineguale, a causa dei rapporti di proprietà. E ciò generava tensioni che davano luogo ad aspre lotte sociali. Ma nell’insieme il capitalismo mantenne la sua promessa: di realizzare, sia pure attraverso l’ingiustizia, la crescita generale della ricchezza e del benessere. Di qui la sua indiscutibile superiorità su ogni altro regime.
Negli ultimi tempi questa superiorità si è incrinata. Da quando, con lo spostamento relativo dall’accumulazione di cose all’accumulazione di titoli rappresentativi delle cose (finanza) il capitalismo ha tradito la sua fondamentale promessa, di tradurre integralmente il profitto nella produzione di beni reali rivolgendolo sempre più verso la concentrazione dei redditi e delle proprietà nelle mani di una minoranza di plutocrati accumulatori di “liquidità”, cioè di moneta nelle forme più svariate. Negli anni immediatamente precedenti l’ultima grande crisi la liquidità mondiale superava il prodotto reale mondiale di dodici volte. Lo squilibrio era colmato da un gigantesco indebitamento: come dire che l’economia si regge non, come nei tempi passati, sullo sfruttamento presente, ma sui redditi futuri. Cioè, sulla fiducia. Viene però, fatalmente, il momento in cui le onde del debito cessano di accavallarsi le une sulle altre per infrangersi sulla riva. È il momento della crisi che stiamo attraversando: quando, come dice Galbraith, gli sciocchi sono divisi dal loro denaro. Ma anche gli incolpevoli lavoratori dal loro lavoro. E che minaccia di tradursi in una recessione mondiale. Che è come dire: in una generale austerità.

 

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