La lezione di Collecchio

Microfiltrato, il caso Parmalat lascia sul fondo le scorie di sistema, le incongruenze di un paese quinta potenza industriale dove è difficile però riconoscere la potenza se non addirittura l’industria. Una via lattea di paradossi. Burocrazia arma letale. È uno dei principali mali del nostro sistema istituzionale ed economico. Oggi è la carta bollata (anche […]

Microfiltrato, il caso Parmalat lascia sul fondo le scorie di sistema, le incongruenze di un paese quinta potenza industriale dove è difficile però riconoscere la potenza se non addirittura l’industria. Una via lattea di paradossi.

Burocrazia arma letale. È uno dei principali mali del nostro sistema istituzionale ed economico. Oggi è la carta bollata (anche se su internet) il grande cancro dell’impresa: costa oltre 30 miliardi l’anno. Ammorba le aziende di adempimenti nella fase di avvio (si spera che lo sportello unico possa alleviare i dolori), ma soprattutto nella fase di sopravvivenza (basti pensare a fisco, sicurezza e ambiente) e le costringe a tortuosi rapporti con i più diversi livelli istituzionali. Ma nel caso Parmalat è diventata la prima, unica e vera arma di difesa, anche se tarda – non a caso – a palesarsi nero su bianco. Da altissime mura di carta il sistema pubblico intende gettare sulle teste degli invasori l’olio bollente del rinvio dell’assemblea, una salva di annunci di indagini fiscali, una richiesta di chiarimenti sulla concentrazione di mercato da parte dell’Antitrust (ma conterà quello italiano o quello europeo?). Insomma chi di burocrazia muore, di burocrazia uccide.

 

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La guerriglia fiscale."Scatenare l’inferno" con gli 007 dell’Agenzia delle entrate è una soluzione. Di guerriglia fiscale si direbbe. Un’altra è alleggerire il carico delle imposte sulle imprese. Come hanno fatto gli inglesi con l’abbattimento al 23% della corporate tax. Effetto immediato il recupero, in 24 ore, del colosso della pubblicità Wpp pronto a rientrare alla base. Forse una vera azione di alleggerimento sul carico fiscale delle imprese – certo difficile da realizzare – renderebbe più semplice anche schierare qualche campione del made in Italy in difesa della Parmalat.

Colbertismi. Da noi si annunciano le liberalizzazioni e la riforma costituzionale dell’articolo 41 sulle libertà d’impresa. E di mercato. Ma si grida al lupo – giustamente – se arriva uno scalatore straniero. In Francia c’era Colbert e ora c’è il patriottismo economico di Carayon e la dottrina de Villepin sui campioni nazionali. Se uno straniero "scala" in Francia si trova, oltre alla burocrazia nemica, anche lo stato "compagno di cordata" attraverso il fondo strategico d’investimento voluto da Sarkozy (il caso Yoplait-General Mills insegna). Un capitalismo misto e coerente. Da noi è spesso misto, soprattutto nelle nicchie di monopolio e di sottogoverno locale, ma molto più incoerente rispetto ai risultati quando la competizione c’è davvero.

Grandi e piccoli. Parmalat vale oltre 3,5 miliardi, fattura 4,3 miliardi. La quota dei fondi (con un guadagno del 30% sul valore di carico) è stata venduta a 2,8 euro per azione che porterebbe il valore del gruppo di Collecchio a 5 miliardi. Lactalis, che non brilla per trasparenza dei bilanci, è comunque il terzo gruppo del mondo, numero uno dei latticini in Europa, 10 miliardi di fatturato, 38mila addetti (Parmalat ne ha 13mila di cui 2.300 in Italia), praticamente "padrone" dei formaggi italiani. Ha gestito una partita da oltre 700 milioni con i fondi, restando al centro di una manovra a tridente con SocGen e Credit Agricole. Insomma, avere dimensioni giuste e fare sistema tra banche e imprese paga.

Ettore Fieramosca cercasi. Al gruppo Ferrero sarebbero serviti i profitti netti di un anno e mezzo per acquisire la quota ceduta dai fondi a Lactalis. Ma il gruppo li realizza, quei profitti, proprio perché non ha mai cambiato il suo modello di business. Comprensibili dunque le perplessità a virare verso il modulo del conglomerato alimentare (pagando, tra l’altro quasi il doppio rispetto a sei mesi fa). Ora l’interesse cresce. Si vedrà se si arriverà a una Yalta del latte o a una disfida di Barletta. È davvero singolare che sia mancato finora un "campione" italiano per uno dei settori a maggiore riconoscibilità dell’italiana way of life.

Quale made in Italy. Chi sa che il formaggio Belpaese è francese? Chi sa che l’acqua San Pellegrino è svizzera? Che il dado Star è spagnolo? L’intelligenza dei predatori industriali ha mantenuto la riconoscibilità del brand come "italiano": ciò che conta, per chi scala, è che i profitti arrivino nei forzieri oltreconfine. L’immagine dell’italian concept è un valore in sé e resta stimato nel mondo anche se di proprietà straniera. È esso stesso un brand. Purtroppo il paese non sa sfruttarlo fino in fondo. In questo caso, tra l’altro, la cessione di una "multinazionale tascabile" come Parmalat avrebbe un impatto serio anche sull’indotto locale a cominciare dagli allevatori, categoria sensibile e "made in Padania".

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