Ilva di Taranto: non sono i magistrati che possono chiudere la fabbrica

Il maxi sequestro di 8 miliardi e 100 milioni di euro del patrimonio della Riva Fire (la società che controlla l’Ilva), disposto dal gip di Taranto, ha già avuto un primo effetto a catena: i consiglieri di amministrazione si sono dimessi, e tra loro esce di scena anche Enrico Bondi, un dirigente industriale dotato di […]

Il maxi sequestro di 8 miliardi e 100 milioni di euro del patrimonio della Riva Fire (la società che controlla l’Ilva), disposto dal gip di Taranto, ha già avuto un primo effetto a catena: i consiglieri di amministrazione si sono dimessi, e tra loro esce di scena anche Enrico Bondi, un dirigente industriale dotato di competenza e di ottima reputazione, il garante della continuità aziendale e dello stesso salvataggio della fabbrica. Passo dopo passo, provvedimento dopo provvedimento, l’azione della magistratura appare sempre più orientata a un preciso obiettivo che si traduce, di fatto, nella chiusura dello stabilimento di Taranto. Prima il braccio di ferro con il governo e con il Parlamento, che avevano approvato un apposito “decreto salva Ilva”, poi la battaglia, persa, per il conflitto tra poteri dello Stato fino alla sentenza della Corte Costituzionale, e adesso una clamorosa iniziativa con la quale si mette fuori gioco non solo l’azionista di controllo ma l’intero vertice operativo della società. Proviamo a essere chiari. Fino a quando la magistratura accerta dei reati, in questo caso gravissimi, individua e colpisce i responsabili per portarli poi a un giudizio nell’aula di un tribunale, fa il suo legittimo mestiere. Cosa diversa, invece, è quando gli atti degli inquirenti dimostrano l’auto-investitura a una sorta di delega per arrivare, a qualsiasi costo, alla fine di una storia industriale, considerata dannosa per la comunità. Qui l’invasione di campo diventa evidente e perfino l’accertamento della verità passa in secondo piano.

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Nessuna persona di buon senso può pensare che Taranto, il Mezzogiorno e l’Italia siano nella condizione di rinunciare allo stabilimento siderurgico pugliese, un presidio industriale strategico per il territorio e per l’intero sistema Paese. L’Ilva di Taranto significa innanzitutto 12mila posti di lavoro, direttamente impegnati nella fabbrica, ai quali bisogna aggiungere migliaia di occupati nell’indotto. I suoi prodotti, dieci milioni di tonnellate di acciaio, equivalgono ai due quinti dell’intera produzione italiana che viene poi spalmata nell’intero sistema produttivo. Per capirci con un esempio: il 25 per cento della componentistica dell’industria automobilistica made in Italy è realizzato con l’acciaio di Taranto, come il 20 per cento delle macchine degli apparati meccanici. Cancellare tutto questo a colpi di sequestri e di provvedimenti giudiziari, mentre siamo ancora nella fase delle indagini, non significa dare una spallata, diciamo l’anticipo su una futura sentenza di condanna, agli interessi della famiglia Riva, significa invece affermare l’uscita dell’Italia dall’industria siderurgica con tutte le conseguenze che ne derivano. Il governatore della Puglia Niki Vendola, che certo non è un uomo politico lontano dalle istanze dell’ecologia e della tutela dell’ambiente, della sicurezza dei lavoratori e della salute, parlando al forum organizzato dal Mattino sul futuro del Mezzogiorno, ha detto testualmente: «La sfida dell’ecocompatibilità ambientale non può risolversi nella rinuncia all’industria, a partire dall’Ilva di Taranto». Sono parole chiare e responsabili, che meritano di essere sottoscritte dalla prima all’ultima. Ma rappresentano anche una rotta opposta rispetto al baratro della chiusura nel quale la magistratura sta infilando lo stabilimento di Taranto.

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