Il nostro futuro di extraterrestri

            di Stefania Rossini   È stato chiamato "l’etnologo del metrò" perché ha portato nel cuore della contemporaneità una disciplina nata per indagare culture lontane, e l’ha usata per misurare gli spazi che la globalizzazione ha reso identici in tutto il mondo. È diventato il riferimento obbligato di architetti, fotografi […]

 

 

 

 

 

 

di Stefania Rossini

 

È stato chiamato "l’etnologo del metrò" perché ha portato nel cuore della contemporaneità una disciplina nata per indagare culture lontane, e l’ha usata per misurare gli spazi che la globalizzazione ha reso identici in tutto il mondo. È diventato il riferimento obbligato di architetti, fotografi e cineasti che trovano in lui l’interprete del presente e il premonitore dei futuri possibili. Ha cercato caparbiamente nella scrittura l’incontro tra esperienza sul campo e creatività letteraria, inaugurando quella che ha chiamato "scrittura antropologica" e facendone una disciplina di riferimento. Oggi, a 76 anni, ancora viaggiatore instancabile e osservatore spietato delle derive della modernità, Marc Augé pubblica il suo libro più compiuto "La vie en double" ("Straniero a me stesso", nella felice traduzione italiana, in uscita con Bollati Boringhieri) che è già stato paragonato al grande testo simbolo dell’antropologia: "Tristi tropici" di Claude Lévi-Strauss.

Professor Augé, la lusinga che il suo lavoro venga paragonato a quello di un monumento del Novecento come Lévi-Strauss?
"L’accostamento non può che farmi piacere, ma me ne tiro fuori. Stiamo parlando di un gigante dell’antropologia, un riferimento per tutti, anche per chi, come me, non si riconosce nella sua scuola ma ritiene che molte delle sue intuizioni siano indispensabili per leggere i nostri tempi".

Sembra che lei non ami i grandi maestri del secolo scorso. Ha preso spesso le distanze anche da Freud.
"Naturalmente lo ammiro. Chi non potrebbe? Ma ritengo che la letteratura come l’etnologia rispondano al richiamo dell’avvenire, non a quello del passato. Due millenni di monoteismi e un secolo di psicoanalisi ci hanno abituati a credere che il senso venga dai tempi remoti, a frugare nei ricordi, nei rimorsi e nei sogni per cercarci la chiave del nostro enigma irrisolto. Non credo che sia così".

Per interpretare il presente anche lei però si è fatto aiutare dal passato, dalla sua Africa con gli sciamani e i profeti della Costa d’Avorio.
"Ho lavorato per molto tempo in Africa e ovviamente è lì che ho gettato le basi della mia ricerca. Persino la prima intuizione sul concetto di "nonluogo" l’ho avuta osservando un piccolo gruppo isolato di Llanos dell’Apuré, in Venezuela, che aveva perso il legame con la propria tradizione, al contrario di ogni villaggio africano dove lo spazio era carico di relazioni sociali inserite in un contesto. Ma va detto che ormai a Parigi come nel profondo dell’Amazzonia o del Sahara, il contesto è sempre mondiale".

Anche la sua fama è mondiale ed è legata soprattutto ai nonluoghi. È come se tutti questi spazi del nostro quotidiano fossero stati lì, in attesa di una definizione.
"Credo di aver dato un nome a un sintomo. E sono più di vent’anni che ne inseguo la diagnosi. Non l’ho ancora completamente trovata, ma questo è il bello della ricerca. Vorrei chiarire però che non ho mai usato questa parola in senso negativo, ma solo per descrivere l’opposto del luogo tradizionale, intensamente simbolizzato e abitato da persone che vi trovano punti di riferimento individuali e collettivi: ancora oggi la città, per esempio, anche nei suoi quartieri più degradati".

I non luoghi sono invece le metropolitane, i grandi magazzini, gli aeroporti, le autostrade ma anche la tv e il computer. Che cosa li accomuna?
"L’accelerazione del tempo e il restringimento dello spazio, nell’ambito di una grande estraneità. La società della comunicazione moltiplica gli effetti della società della circolazione. Io vado sempre più rapidamente dall’Europa all’America ma se accendo il mio computer ci vado istantaneamente".

Questo è necessariamente un male?
"Non l’ho mai detto e non lo penso. Mi sono sempre rifiutato di fare liste parallele ed empiriche, perché quello che per qualcuno è un luogo, per un altro può non esserlo. Non è la stessa cosa lavorare tutti i giorni in un aeroporto o andarci solo per prendere un volo".

Il nonluogo della televisione può essere almeno un balsamo alla solitudine?
"Forse è un rimedio ma è anche una droga perché diffonde un falso senso di appartenenza. Con la tv l’immagine della relazione si è sostituita alla relazione. Noi crediamo di conoscere quei personaggi che ci parlano dallo schermo ma in realtà ci limitiamo a "riconoscerli" proprio perché li vediamo ogni giorno. Siamo inoltre chiamati alla fedeltà con una scansione del tempo quasi liturgica. L’appuntamento delle otto di sera svolge oggi il ruolo del suono delle campane di cui Le Goff ha studiato l’invenzione da parte della Chiesa nel Medioevo. È, come nel caso del computer, l’illusione di non essere soli ci rende sempre più soli".

Posso obbiettarle, professore, che il computer può dar vita a reti di relazioni che hanno anche esiti materiali? Le rivolte in Nord Africa ne sono un esempio.
"Il ruolo del computer in quelle rivolte è stato ampiamente sopravvalutato. Le persone che hanno invaso le piazze non mi sono sembrate degli internauti. Non nego che stiamo parlando di uno strumento meraviglioso: giovani israeliani e giovani palestinesi si parlano finalmente perché c’è Internet. Ma è anche interessante indagare la natura di queste relazioni. Che cosa vuol dire, per esempio, avere milioni di amici attraverso un network? Che amicizia è? È urgente un’etnologia delle relazioni informatiche".

Fra i tanti spazi, vecchi e nuovi, che lei ha analizzato non ha mai parlato dei palazzi della politica, i posti dove gli uomini si occupano del bene pubblico. Li considera luoghi o nonluoghi?
"Si tratta certamente di luoghi pieni di senso e di relazioni, ma sono anche l’esempio migliore che questo non basta perché ci si trovi del buono. Nella vita democratica attuale si oscilla tra un eccesso di senso e un eccesso di individualità, ma il mondo globale sta intanto camminando in un’altra direzione".

Quale?
"La stessa simultaneità ci sta facendo prendere coscienza che viviamo tutti sullo stesso pianeta. Sembra un’ovvietà ma in questa percezione vi è qualcosa di quasi metafisico. Per la prima volta sentiamo che la Terra è veramente piccola, una mini serra dove stiamo strettissimi, e abbiamo paura di esaurirla, scuoterla, stancarla troppo. Questo è il paradosso: ci muoviamo in modo sempre più rapido e intanto prendiamo la misura della piccolezza della Terra. Non passerà molto tempo, decenni, al massimo qualche secolo, e saremo costretti a spingerci più lontano".

Nel frattempo che ne sarà di questo pianeta? La sua antropologia ha qualcosa da dire?
"La globalizzazione ha cambiato tutti i riferimenti e le antinomie a cui eravamo abituati. La vera opposizione oggi è tra il "mondo-città" e la "città-mondo". Il primo viene percorso con un colpo d’ala dai grandi della Terra, dagli uomini d’affari, dai turisti e dagli architetti. E la sua immagine si ritrova su tutti gli schermi e nelle vetrine di tutte le agenzie di viaggi".

Invece la "città mondo"?
"È la megalopoli all’interno della quale si percepiscono in maniera evidente le differenze sociali, etniche, culturali ed economiche, dove la miseria sta accanto all’opulenza e dove pochi chilometri separano i più grandi laboratori di ricerca scientifica dalle zone dove sono relegati gli analfabeti. È in queste "città-mondo" sempre più interconnesse le une con le altre che il futuro si lascia decifrare con più chiarezza".

Sta prefigurando un grande spazio conflittuale per tutta l’umanità?
"Non proprio. Il pianeta di domani, somma di tanti luoghi e nonluoghi, sarà diviso in tre classi: l’oligarchia dei vicini al potere, alla ricchezza e al sapere; la massa dei consumatori più o meno passivi, motori del sistema; e la massa ancora più considerevole degli esclusi dal potere, dalla ricchezza e dal sapere"

Senza più scampo, professor Augé?
"Viviamo in un mondo sempre più individualizzato, con appartenenze collettive invase dall’immagine e dal consumo. Non siamo consapevoli di essere impegnati nella stessa avventura. Almeno non ancora".

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