Il leader di Greenpeace International: Non é più tempo di eco eroi

Era abituato a inseguire i capi d’azienda fin dentro i bagni del Forum di Davos, dove ogni anno si riunisce il Gotha dell’economia mondiale, pur di avere un momento di ascolto. Pochi gli davano retta mentre perorava la causa di qualche attivista dimenticato dietro le sbarre, senza processo, in uno di quei Paesi dove le […]

Era abituato a inseguire i capi d’azienda fin dentro i bagni del Forum di Davos, dove ogni anno si riunisce il Gotha dell’economia mondiale, pur di avere un momento di ascolto. Pochi gli davano retta mentre perorava la causa di qualche attivista dimenticato dietro le sbarre, senza processo, in uno di quei Paesi dove le multinazionali concludono affari senza far troppe domande. Oggi, gli stessi capi d’azienda, i loro manager e dirigenti del marketing, non gli lasciano più il tempo di seguire neppure una sessione del Forum. Vogliono tutti sedersi a un tavolo con lui, Kumi Naidoo, 46 anni, sudafricano di origine indiana, una non lontana somiglianza con il Kabir Bedi di Sandokan, nello sguardo come nella fame di sfida, passato dalla lotta per i diritti civili, contro l’apartheid e la povertà alla guida di un colosso dell’ecologia: Greenpeace International. «Perché tutti mi vogliono?». Sorride, sornione. «L’ho chiesto all’amministratore delegato di una grande azienda e mi ha risposto: così evitiamo di finire sulla vostra lista nera».

Come ha deciso di passare dall’impegno per i diritti civili all’ecologia militante?
«Quando Greenpeace mi ha chiamato per propormi il posto di direttore esecutivo (la massima carica dell’organizzazione, ndr) ero al diciannovesimo giorno di uno sciopero della fame, ho preso tempo. Mia figlia, che oggi ha 19 anni, era furiosa: “Loro non parlano soltanto, fanno cose. Pensaci bene quando hai finito quello stupido sciopero che rischia di ucciderti”. Aveva ragione. Lavorando contro la povertà in Africa, Asia, America Latina mi sono reso conto che la distruzione dell’ambiente annulla qualsiasi prospettiva di sviluppo. Per esempio, in Bangladesh alcuni progetti avevano effettivamente migliorato le condizioni della popolazione, ma nel frattempo s’è alzato il livello del mare, contaminando l’acqua dolce sulla costa e costringendo gli abitanti a emigrare. Laggiù i profughi ambientali sono già un esercito».

Ecologia uguale lotta alla povertà?
«Nel mondo 1,6 miliardi di persone non hanno accesso nemmeno a una lampadina. Se anche loro, cioè i Paesi in via di sviluppo, cominceranno a utilizzare la “brown energy”, l’energia derivata da combustibili fossili, l’impatto sul pianeta sarà catastrofico. Ci vorrebbero tre pianeti Terra… Perfino Cia e Pentagono confermano che la principale minaccia alla sicurezza e alla pace in futuro verrà dai cambiamenti climatici. Sarà una guerra per le risorse. Basta guardare cosa è successo in Darfur: la scarsità d’acqua e di terra è stata una delle principali cause del conflitto».

Dai cacciatori di balene alla lotta contro la povertà, sono cambiati parecchio i “nemici” e gli obbiettivi di Greenpeace con lei alla guida…
«Il solo fatto che Greenpeace mi abbia contattato conferma la ricerca di un punto di contatto tra ecologia e lotta alla povertà. Oggi siamo particolarmente forti nei Paesi in via di sviluppo e lavoriamo molto con le comunità di base. In Amazzonia, per esempio, abbiamo in corso grosse campagne per impedire l’avanzamento della deforestazione, in partnership con gli indigeni, con i sindacati e anche con associazioni religiose, come la Catholic justice and peace commission. Laggiù ho incontrato una suora piccolissima e straordinaria, le compagnie del legno hanno cercato di ucciderla tre volte, hanno ammazzato una sua nipote. Eppure lei non si arrende».

La sua è un’immagine molto diversa dall’eco-guerriero che lotta in solitaria contro l’establishment, i Golia del petrolio o le baleniere…
«Per me è chiara la necessità di legami più stretti con la società civile. Tutte le grandi battaglie civili che l’umanità ha vinto – contro la schiavitù, per la parità della donna o per i diritti civili in Usa – avevano alle spalle un ampio spettro di sostenitori nella società. In Sudafrica abbiamo sconfitto così il regime dell’apartheid. E la giustizia ecologica non sarà soltanto per gli ecologisti puri».

Seppelliamo gli eco-guerrieri?
«Greenpeace continuerà a “portare testimonianza”, come dicono i quaccheri. Dobbiamo tenere accesi i riflettori sulle situazioni più critiche, sensibilizzare l’opinione pubblica e spingerla a mobilitarsi per il cambiamento. Ma è tempo di lavorare attraverso nuove alleanze. Ci siamo seduti con i religiosi e abbiamo appena stretto una specie di patto con la Confederazione sindacale internazionale, che per la prima volta è guidata da una donna, l’australiana Sharan Burrow. Abbiamo concordato di lavorare insieme per una transizione equa verso una nuova economia. Non è più tempo di conflitti tra red, i sindacati “rossi”, e green, gli ambientalisti “verdi”. È giusto proteggere l’ambiente ma creando nuovi posti di lavoro».

E qui vi vengono in aiuto le multinazionali?
«Greenpeace non prende soldi né dai governi né dal business e questo ci garantisce l’indipendenza per impegnarci onestamente con la comunità economica».

Chissà come sono contenti gli “eco-warrior” della vecchia guardia…
«Direi una bugia se ora rispondessi che tutti i sostenitori di Greenpeace sono felici al 100 per cento. Ma è un’alleanza che porta risultati. Abbiamo convinto la Coca-Cola a utilizzare refrigeratori e distributori automatici senza idrofluorocarburi (HFC-free), aiutandola a trovare l’adeguata tecnologia (chiamata Energy management system, è basata su refrigeranti naturali e migliora l’efficienza energetica delle unità di oltre il 35%, ndr). Poi abbiamo convinto gli amministratori delegati sia di Coca-Cola sia di Unilever a tirar su il telefono e darsi da fare al nostro fianco. “Ci sono altre 14 aziende che usano sistemi di refrigerazione che inquinano l’atmosfera con i gas serra…”, abbiamo spiegato. Hanno accettato di chiamare i loro omologhi, siamo stati solo attenti a evitare che la PepsiCo finisse nella lista del capo di Coca-Cola. E in novembre c’era il consenso di tutti: alcuni elimineranno gli HFC entro il 2015, altri hanno chiesto cinque anni in più».

Scelte “verdi” che possono nascondere strategie di marketing, se non veri e propri tentativi di “greenwashing”, cioè operazioni puramente simboliche. Come fa il consumatore a capire se un’azienda è davvero eco-sostenibile?
«Se devo essere brutalmente onesto, penso che il 10 per cento delle aziende ha compreso la necessità di cambiamenti sostanziali, sicuramente dolorosi nel breve periodo ma indispensabili per la loro stessa competitività futura. All’altro estremo, un 30 per cento è scientemente impegnato in operazioni di “greenwashing” per creare un’immagine positiva, senza nulla di concreto alle spalle, e spera di non essere scoperto. Infine, c’è la maggioranza che ha accettato di fare piccoli cambiamenti nella giusta direzione ma non ha capito che invece servono cambiamenti radicali. A dire il vero neppure noi siamo sicuri al 100 per cento delle reali intenzioni di molte compagnie. Ma possiamo sederci al tavolo con loro, tenerle d’occhio e, se necessario, denunciarle. E la ragione per cui possiamo farlo è che quando entro in quei meeting, a Davos o altrove, i soldi non contaminano mai la conversazione. Noi non prendiamo soldi, loro non cercano di ottenere favori in cambio di soldi…».

Vi siete permessi di attaccare i social network…
«I consumi energetici dell’“information technology” quadruplicheranno nella prossima decade. Ma abbiamo sviluppato una “cool IT guide” che periodicamente premia le aziende del settore che si sono contraddistinte nel loro impegno a trovare soluzioni in grado di ridurre le emissioni, come HP…».

E poi avete denunciato Facebook, il social network più amato da quelle nuove generazioni che volete conquistare all’ecologismo. Non è pericoloso?
«Facebook ha un nuovo data center nell’Oregon la cui elettricità viene per la maggior parte dal carbone. Amiamo anche noi Facebook, siamo felici che esista, ma vogliamo indicargli la strada giusta».

Cioè?
«Non si può continuare a consumare energia con l’approccio tradizionale, business as usual. Dobbiamo cominciare a ripensare al modo in cui comunichiamo, viaggiamo, produciamo, consumiamo. Greenpeace ha sviluppato uno scenario di rivoluzione energetica, disponibile anche per l’Italia, che dimostra come migliorando l’efficienza energetica e con seri investimenti nelle rinnovabili possiamo continuare a sviluppare l’economia in modo sostenibile. La Germania ha creato 30 mila nuovi posti di lavoro nel settore nucleare e 300 mila in quello delle energie rinnovabili. In Africa non stiamo sfruttando neppure l’1% del nostro potenziale solare. Gli scienziati dell’Intergovernmental panel on climate change confermano che le rinnovabili possono rispondere al fabbisogno energetico del mondo intero».

In quanto tempo e con che soldi, o i soldi di chi?
«Con un piano di transizione graduale, possiamo arrivare entro il 2050 al 100% di produzione energetica da rinnovabili. È possibile se ci sono la volontà politica e i giusti investimenti nei prossimi 3-4 anni. La Cina ha capito qual è la posta in gioco: nel primo quarto del 2010 è stato il più forte investitore in rinnovabili, ogni ora attiva una pala eolica ed è in fase avanzata di negoziazione con la Grecia per costruire un grande parco eolico, sarà un ponte per portare la tecnologia eolica “made in China” in Europa. Pechino ha capito che la corsa del futuro non è più alle armi o allo spazio, è la green race e le economie che domineranno il resto del mondo in futuro sono quelle che stanno facendo gli investimenti giusti ora».

Manca una volontà a livello internazionale, con impegni precisi e vincolanti per tutti, però…
«Quando i governi si riuniscono prevale il nazionalismo partigiano. E il potere dell’industria del petrolio, del carbone e del nucleare… Troppi governi stanno giocando un poker politico con il futuro dei nostri figli e nipoti. Una visione globale c’è, a livello retorico, ma quando si va al sodo tutti guardano dall’altra parte. Eppure se c’è la volontà politica i soldi vengono fuori, lo abbiamo visto quando le banche sono andate in crisi…».

Non ha incontrato nessun politico in Italia?
«Abbiamo provato a fissare un appuntamento, non ci siamo riusciti», s’insinua un po’ imbarazzato Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia. Kumi tira fuori uno dei suoi migliori sorrisi: «Il momento migliore per visitare un Paese è 4-6 mesi prima di una elezione politica importante. Né prima, né dopo…». Immagine, immagine.

 

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