I giovani italiani che sprecano lavoro: 124mila posti snobbati

Ho letto con attenzione l’indagine di Unioncamere sui posti vacanti per i giovani sotto i 30 anni. Lavori stabili, a tempo indeterminato, con uno stipendio garantito, lavori che però vengono rifiutati e dunque restano virtuali, con una cifra assurda: 124mila posti che nessuno occupa. L’indagine andrebbe discussa e conosciuta nelle scuole professionali, nelle università, nei […]

Ho letto con attenzione l’indagine di Unioncamere sui posti vacanti per i giovani sotto i 30 anni. Lavori stabili, a tempo indeterminato, con uno stipendio garantito, lavori che però vengono rifiutati e dunque restano virtuali, con una cifra assurda: 124mila posti che nessuno occupa. L’indagine andrebbe discussa e conosciuta nelle scuole professionali, nelle università, nei luoghi dove si parla tanto della disoccupazione giovanile in Italia. Specie nel Mezzogiorno, dove le statistiche ci segnalano che solo un ragazzo su tre riesce a lavorare, o ha voglia di farlo. L’indagine di Unioncamere aggiorna il bacino professionale rispetto al quale la domanda non si incrocia con l’offerta. E quello che colpisce è l’allargamento della forbice e dei settori coinvolti. Insomma: i giovani disoccupati italiani rifiutano non solo lavori ormai monopolizzati dagli immigrati, come i posti di cuochi, camerieri, facchini, manovali dell’edilizia, ma anche attività professionali di antica e solida tradizione. Non si trovano elettricisti e meccanici, ma anche disegnatori industriali, parrucchieri, estetisti. Un medio imprenditore racconta la fatica che deve fare per trovare un carrozziere, pur potendo offrire un contratto nazionale con 14 mensilità, e con uno stipendio base tra i 1200 e i 1600 euro. Sappiamo bene che questa assurda anomalia italiana, in Germania le cose funzionano esattamente al contrario, è il pegno che paghiamo innanzitutto per la dequalificazione degli istituti professionali, punta di diamante del sistema formativo tedesco. Ma c’è altro, ben altro. E bisogna dirlo senza dissimulazioni. Il boom dei mestieri normali che i ragazzi italiani rifiutano indica anche due convinzioni che ormai si sono consolidate nell’universo giovanile. La prima: più che un lavoro spesso conta uno status sociale, e rischiare con mestieri considerati di “serie B” non vale la pena. Specie se si può restare a casa, protetti dalla rete familiare, magari accettando qualche incarico part time con pagamento in nero. La seconda variabile è quella esclude il futuro dall’orizzonte di una scelta professionale. Quei posti vacanti significano che i giovani non considerano il lavoro di carrozziere, o di elettricista, con tutta la piena dignità di un’attività artigianale, come il primo gradino di un percorso. Un ingresso sul mercato del lavoro, un’esperienza, dopo la quale magari può esserci lo sbocco di un’attività in proprio con tutte altre prospettive rispetto ai 1.200 euro del mensile di partenza. In un libro straordinario (Insieme, edizioni Feltrinelli) il sociologo Richard Sennet torna sulla riscoperta del lavoro artigiano, collegandolo anche alla sua essenzialità per rendere coesa una società e rafforzarla. «L’artigiano che diventa bravo acquista abilità utili per la vita sociale» scrive Sennet. E forse anche per questo, mentre i giovani rifiutano i posti liberi del lavoro artigianale, l’Italia è un paese sempre più slegato.

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