L´11 settembre 1961, in Svizzera, un pubblicitario, un professore, un avvocato, un pittore, un ornitologo e un principe fondarono il World Wildlife Fund. Da allora il Wwf ha salvato specie in estinzione, foreste e riserve naturali. Ma soprattutto ha inaugurato un nuovo modo di guardare il mondo. Volevamo un animale bello, in pericolo e amato. E bianco e nero per risparmiare sui costi di stampa.
Il World Wildlife Fund (fondo mondiale per la vita selvatica, ma forse “wildlife” andrebbe reso, più estesamente, con “natura”) compie cinquant´anni. Nacque in Svizzera l´11 settembre del 1961, concepito da una piccola cerchia di naturalisti facoltosi e cosmopoliti, inglesi e svizzeri. Il sito ufficiale dell´associazione menziona sei «padri fondatori»: un pubblicitario, un professore di storia, un avvocato, un principe regnante, un pittore e un ornitologo. (Ma la qualifica di ornitologo viene attribuita anche ad altri tre del gruppo, così che il Wwf può essere sicuramente definito l´estensione, fortunatissima, della passione privata di un gruppo di bird-watchers).
Ecco dunque il primo punto – e non certo il meno importante – che il compleanno della più popolare associazione ambientalista del pianeta pone alla nostra attenzione con una certa spietatezza: non la politica, ma l´impegno di una ristretta élite intellettuale ed economica è stato l´humus dal quale è germinata, in Occidente, la coscienza ambientalista. Perfino negli immaginosi anni Sessanta, che sottoposero a radicale ripensamento ogni aspetto della vita politica, economica, sessuale del mondo occidentale, la questione ambientale rimaneva sullo sfondo, quasi occulta. Si è poi polarizzata e anche popolarizzata, quella questione, lungo i decenni successivi, fino ad assumere una pregnanza politica di assoluto rilievo. Ma ancora si porta dietro, a ben pensarci, le stimmate di un dubbio “lussuoso”, qualcosa sul quale è consentito indugiare se non si è afflitti da “problemi più gravi”.
Si pensi solamente alla tenacia quasi ottusa con la quale la sinistra mondiale ha sistematicamente anteposto i problemi dell´occupazione a qualunque scrupolo ambientale: tutto, pur di preservare il lavoro. Anche quando (vedi il clamoroso caso italiano dell´Acna di Cengio) non era a repentaglio il posto di lavoro, ma la salute del lavoratore, della sua famiglia, del suo intero habitat sociale. Il tempo si è poi incaricato di farci capire – anche se non a tutti – che di “problemi più gravi” non ne esistono. Niente è più strutturale, più basico, della salute dell´ecosistema che ci è madre e padre, e niente è più grave dell´abuso che se ne fa e dei dissesti che ne minano l´integrità e forse il futuro. Non si tratta di ubbie poetiche, si tratta di materia, di biologia, di chimica e di fisica: ma questo, quando il Wwf cominciò a muovere i suoi primi e goffi passi, quasi nessuno lo diceva e quasi nessuno lo sapeva.
La strada che ci ha portato a questa progressiva e ancora molto contrastata coscienza è stata lunga e piuttosto indiretta. Il Wwf, per i primi e lunghi anni della sua vita, ha parlato e agito sotto forma di un protezionismo animalista che appariva all´opinione pubblica nobile ma marginale. Ovvero: salvare il panda, cinquant´anni fa, voleva dire salvare il panda, e basta. Come se alla collezione del mondo non dovesse venire a mancare quel pezzo raro, e altri pezzi a seguire. Ma si era ancora del tutto all´oscuro (forse anche nella percezione dei soci fondatori) della profonda connessione tra l´estinzione di una singola specie e la crisi di sistema che minacciava la biosfera e metteva in discussione l´intera convivenza tra gli uomini e le altre bestie. Un po´ come – oggi – avviene in agricoltura, dove chi difende a spada tratta le biodiversità e le piccole coltivazioni specializzate viene considerato un maniaco passatista, un cultore eccentrico di specialità rare, mentre ciò che ha a cuore è l´equilibrio complessivo delle terre coltivate, la compatibilità tra agricoltura e natura, e insomma la famosa “sostenibilità”. Che vuol dire: Vita.
Certo l´eventuale fine del panda, pacioccone e indifeso, quasi un peluche in natura, funzionò come sintomo di malattia planetaria, come presagio esiziale, anche quando la parola “ecologia” era nota solo a pochi esperti. La scelta di quel fortunato logo da parte del Wwf fu quasi efferata per quanto era azzeccata: in assenza di serie e diffuse cognizioni ambientaliste, si puntava sulla tenerezza e sul senso di protezione. Un lavorio lento, duraturo, formidabile che riuscì a contaminare nel tempo le scuole e le famiglie fino a fare del panda il simbolo assoluto della natura in pericolo. Una natura così inerme (non più “matrigna”, piuttosto figlia) che prendersene cura sembrava obbligatorio. L´equivalenza “panda in pericolo uguale natura in pericolo uguale umanità in pericolo” era tutt´altro che ovvia. E almeno per i primi vent´anni di vita del Wwf, parlare del panda significava essere accusati di parlare d´altro, in un mondo che aveva posto la questione sociale – la Politica – talmente in primo piano da monopolizzare il campo visivo. E qui si torna all´involontario eppure prezioso “merito” del Wwf: essere nato da un impulso elitario, del tutto indifferente all´eventuale non-popolarità della causa. Più forte, perfino, della diffusa ironia e della satira esplicita che è puntualmente fiorita attorno a molto animalismo sciropposo, che con il ruvido fascino della natura (wildlife, vita selvaggia) ha ben poco da spartire, e molto con la melensaggine umana, con il marketing peloso, con la cartoonizzazione della fauna. A quei principi regnanti (Filippo di Edimburgo e Bernardo di Olanda), a quelle signore ingioiellate, a quei naturalisti facoltosi che si ritrovavano in Svizzera per trascorrere vacanze certamente non “di massa”, dell´eventuale sarcasmo a proposito del loro impegno in favore di un orsetto cinese di montagna (mentre il mondo intero dicendo Cina pensava a Mao e alla rivoluzione) importava poco o nulla.
Tra i vantaggi del rango e del censo, c´è anche quel genere di separazione dal mondo che genera, al peggio, lo snobismo, ma al meglio genera larghezza di vedute e libertà di giudizio: quanta ne bastava per pensare, nel 1961, che occuparsi della salvaguardia della natura, e della bellezza del mondo, fosse un dovere per le classi dirigenti, e un´opzione necessaria per la nascente società di massa. E fu così che il “lusso” di una fondazione nata per salvare un plantigrado fin lì ignoto al mondo diventò uno dei primi, fondamentali passi per diffondere a macchia d´olio il seme della coscienza ambientale, e infine la cognizione che la magnificenza degli ambienti naturali non è solo uno spettacolo per i perdigiorno, è la garanzia della nostra sopravvivenza.
Ben altre forme ha poi assunto, nel tempo, l´ambientalismo. Dalla galassia dei movimenti e dei partiti verdi alla combattiva, spettacolare radicalità di Greenpeace. Ma il Wwf è stato una vera e propria avanguardia, un rompighiaccio che ha aperto, nella coltre compatta dell´indifferenza, uno squarcio di coscienza. Lo ha fatto in anni in cui il boom industriale, e il benessere finalmente a disposizione di molti, quasi pretendevano una rimozione di massa delle radici rurali, del rapporto con la natura, delle varie e difformi mitologie degli spazi aperti che erano state degli avi e ora sparivano, cancellate dai nuovi skyline urbani. Lo ha fatto in ritardo rispetto alle distruzioni ambientali, ma lo ha fatto in anticipo rispetto alla coscienza di massa.
Michele Serra