I 23 miliardi di fondi europei che non riusciamo a spendere

Immaginate di essere in difficoltà economica e avere problemi ad arrivare a fine mese. Fate conto che un amico generoso vi offra una bella somma di denaro, a patto di conoscere punto per punto come intendete utilizzarla. E che dopo qualche tempo, in assenza di una vostra risposta, l’amico si riprenda quei soldi. Sembra un’assurdità, […]

Immaginate di essere in difficoltà economica e avere problemi ad arrivare a fine mese. Fate conto che un amico generoso vi offra una bella somma di denaro, a patto di conoscere punto per punto come intendete utilizzarla. E che dopo qualche tempo, in assenza di una vostra risposta, l’amico si riprenda quei soldi. Sembra un’assurdità, eppure è esattamente ciò che ha appena rischiato di accadere all’Italia con i fondi comunitari. Nonostante siano spesso alle prese con ristrettezze di budget, le regioni, in particolare nel Mezzogiorno, usano infatti poco e male il fiume di denaro che l’Ue mette loro a disposizione. La normativa prevede che, salvo proroghe, ci siano due anni di tempo per utilizzare una somma stanziata prima che la Commissione proceda al ritiro. La scadenza per la quota 2007-2009 era fissata al 31 dicembre scorso e gli uffici della Commissione europea sono attualmente al lavoro per effettuare le verifiche. Il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca, il 30 dicembre si è affrettato a sottolineare che "sui fondi strutturali l’Italia ha sostanzialmente evitato per il 2011 il disimpegno automatico". Ma lo spettro di questo clamoroso autogol ha aleggiato fino a poche settimane fa.

Il commissario alle Politiche regionali, Johannes Hahn, l’aveva detto chiaramente un mese fa, rispondendo a un’interrogazione dell’europarlamentare bulgara Hyusmenova: a fine novembre erano a rischio 2,87 miliardi di euro e l’Italia era fra i Paesi in cui "il rischio di disimpegno è più alto". Un’accelerazione nelle ultime settimane, unita a qualche stratagemma tattico, ha salvato in extremis la situazione. Come? Attraverso a misure che sostanzialmente fanno slittare nel tempo l’onere di spesa. Ecco allora un fiorire di rimodulazioni delle quote di cofinanziamento, la presentazione di Grandi progetti e il ricorso a strumenti di ingegneria finanziaria.

Eppure l’entità delle risorse in campo richiederebbe ben altra attenzione. Su una programmazione comunitaria di 347 miliardi, per gli anni 2007-2013 la Ue ha destinato all’Italia circa 28 miliardi di fondi strutturali: 21 di Fesr e 7 di Fse. Un Paese in crisi economica dovrebbe approfittare di tanta generosità. In Italia invece accade il contrario: finora ne abbiamo spesi appena il 18% (5 miliardi), gli altri 23 sono a rischio. Solo la Romania, col 14%, ha fatto peggio. Tabelle alla mano, siamo dodici punti sotto la media europea,  la metà del 35% della Spagna. Il confronto col Regno Unito (37%) e la Germania (38%) è ancora più sfavorevole. Poi ci chiediamo perché Londra e Berlino ci guardano con sfiducia.

Un risultato complessivo così deludente è figlio di singole performance regionali anche peggiori. Il centro-nord, col suo 28,4% di fondi spesi, è quasi in linea con la media comunitaria. Spiccano le brillanti performance delle Province autonome di Trento (47%) e Bolzano (33,2%) e dell’Emilia Romagna (42,5%). Ma la situazione nel Mezzogiorno appare disastrosa. Secondo il monitoraggio del ministero dell’Economia, al 31 ottobre scorso la Sicilia aveva speso appena il 9,1%, la Campania il 9,5% e la Calabria il 15,2% delle risorse a disposizione.

Il campanello d’allarme l’ha suonato alle commissioni Bilancio di Camera e Senato il ministro Barca pochi giorni dopo il suo insediamento: "L’Italia ha accumulato un grave ritardo nella programmazione 2007-2013, con una percentuale di pagamenti di nove punti in meno rispetto allo stesso stadio del periodo di programmazione precedente (2000-2006)". E il peggio non è ancora passato, perché secondo il ministro "esistono forti rischi di perdita di fondi per la fine del 2012".

Ma come si è arrivati così vicini a questo disastro? Il governo Berlusconi ci ha messo del suo ma la dissennatezza di alcune scelte del vecchio esecutivo è una scusante solo parziale. Al Sud, ad esempio, per il cofinanziamento dei programmi comunitari si poteva utilizzare il Fondo per le aree sottosviluppate (Fas). Peccato che l’ex ministro Giulio Tremonti ne abbia utilizzato più della metà per interventi di tutt’altro genere. La lista è lunga: si va dalla cassa integrazione al ripianamento del disavanzo di Roma Capitale e del Comune di Catania, passando per il G8 della Maddalena e l’emergenza rifiuti a Napoli. Anche il rigore delle politiche di bilancio non ha aiutato. Nonostante i reiterati appelli delle regioni, il governo Berlusconi in tre anni e mezzo non ha mai allentato i vincoli del patto di stabilità per velocizzare il ritmo di spesa. Non a caso proprio quel che ha fatto l’esecutivo Monti con la manovra "Salva Italia".

Dulcis in fundo, la scarsa capacità di programmazione degli enti locali, che incontrano difficoltà a reperire le risorse necessarie al cofinanziamento dei progetti. Colpite dai tagli di via XX Settembre e spesso troppo impegnati a salvaguardare i loro privilegi, le regioni sono a corto di liquidità per i progetti di più ampio respiro.

Anche la politica locale non ha mancato di dare il suo contributo. Molti programmi sono stati lasciati a se stessi, senza contare l’instabilità delle strutture amministrative: dopo ogni tornata elettorale lo spoil-system dei quadri dirigenti rallenta immancabilmente l’iter dei progetti e disperde competenze difficili di rimpiazzare.

In questa saga degli orrori, il prossimo anno verrà definita la ripartizione dei finanziamenti europei per il 2014-2020. Se l’Italia non riuscirà a spendere tutte le risorse attuali, è facile prevedere che i Paesi virtuosi vorranno avere più voce in capitolo. Un amico non tradisce, ma pretende affidabilità. E il rischio che Bruxelles chieda indietro i soldi che non sappiamo utilizzare resta sempre dietro l’angolo.

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