E’ vero che c’e’ chi nasce per rubare e uccidere?

«Che brutto ceffo!», è l’espressione «lombrosiana» più semplice e universalmente comprensibile, ovvero del modo di pensare di Cesare Lombroso (1835-1909), professore di psichiatria e antropologia criminale a Torino dal 1887, e uno dei più famosi neuropsichiatri del mondo. Tale affermazione si basa sul presupposto che esista una corrispondenza tra struttura anatomica del cervello (e del […]

«Che brutto ceffo!», è l’espressione «lombrosiana» più semplice e universalmente comprensibile, ovvero del modo di pensare di Cesare Lombroso (1835-1909), professore di psichiatria e antropologia criminale a Torino dal 1887, e uno dei più famosi neuropsichiatri del mondo. Tale affermazione si basa sul presupposto che esista una corrispondenza tra struttura anatomica del cervello (e del suo involucro, cioè il cranio e quindi il volto) e comportamento. Nel proporre questa teoria Lombroso si pose, in buona fede, come sostenitore di un’ipotesi biologica (geneticamente determinata) della malattia mentale, ma soprattutto, della cosiddetta «devianza» e quindi della criminalità, con poco spazio per attenuanti psicologiche o sociologiche. In altri termini, secondo Lombroso, criminali si nasce.

E’ indubbio che una tale teoria (peraltro non sufficientemente scientifica) l’ha reso un personaggio discusso e per certi versi scomodo. Possiamo oggi veramente credere che «un brutto ceffo», cioè un individuo con fronte stretta e bassa, grosse sopracciglia, sottigliezza delle labbra, sporgenza degli zigomi, deformità del naso, prognatismo, sia sinonimo di «ladruncolo» o «vero delinquente» o comunque uno di cui non fidarsi? O, al contrario, possiamo escludere a priori che una persona di aspetto che definiremmo normale non sia un serial killer? Provate a ragionare sulle notizie di cronaca nera e vedrete che le vostre certezze dimuiniranno.

Ad un secolo dalla morte del nostro, tuttavia, il suo pensiero continua a permeare ogni settore della cultura e delle scienze e, per quanto negata razionalmente, la sua influenza è ancora fuori discussione. Non per nulla nel mondo anglosassone, così severo nel giudicare gli scienziati «stranieri», Lombroso è considerato uno studioso degno del massimo rispetto.

Le sue teorie nascono su basi darwiniane e positiviste, ovvero: 1) l’uomo discende dalle scimmie e quindi il criminale non è altro che un individuo regredito allo stato primitivo e 2) tutto può e deve essere osservato e descritto anche matematicamente. Ma è altrettanto vero che esse furono influenzate dalla situazione politica e culturale italiana dopo l’unificazione e che questa, a sua volta, fu la causa del suo successo. Infatti, dopo l’Unità le differenze tra il Nord ed il Sud divennero drammaticamente evidenti e i numerosi problemi sociali relativi ai «briganti» catturarono l’attenzione di Lombroso. La sua idea del «criminale atavico» divenne popolare perchè respingeva l’idea che il crimine facesse parte dei problemi della società, permettendo alla classe dominante di negare ogni responsabilità. A questo proposito ricordo che nel Museo di Psichiatria ed Antropologia di Torino sono conservati 904 teschi di cosiddetti briganti da lui raccolti e che un prete di Napoli ha richiesto che vengano seppelliti con una cerimonia religiosa. Allo stesso tempo il sindaco di Motta Santa Lucia, il paese calabrese nativo del brigante Giuseppe Vilella (il primo sul cui cranio Lombroso effettuò le valutazioni antropometriche), e discendente della stessa famiglia, ha richiesto che i resti dell’antenato tornino al luogo di origine.

Bisogna tuttavia riconoscere che le teorie lombrosiane rappresentarono il tentativo rivoluzionario e ben riuscito di incorporare gli studi criminologici nel campo delle scienze psicologiche e mediche, ovvero di «medicalizzare» il crimine, e quindi renderlo passibile di terapia: per quanto discutibili, i manicomi criminali sono la logica conseguenza del pensiero lombrosiano e all’inizio furono concepiti come un’alternativa al carcere più idonea a curare i criminali con disturbi mentali. Sfortunatamente, Lombroso ipotizzò poi una connessione tra la personalità criminale e l’epilessia, malattia caratterizzata spesso da crisi con perdita parziale o totale della coscienza, a volte accompagnate da gesti o atti dei quali il soggetto non serba memoria. Lombroso sottolineò che alcuni «crimini passionali» rappresentavano degli equivalenti di crisi epilettiche, concetto non lontano da quello moderno di crisi con componente affettiva (tipo i «déja vu»), per le quali proponiamo il termine più consono, mutuato dalla filosofia della mente, di «qualia emozionali epilettici». Tali teorie esercitano ancora oggi una profonda influenza negativa sia sull’opinione medica che su quella pubblica, contribuendo alla stigmatizzazione dei pazienti con epilessia. Come neurologi, non possiamo ignorare questa «area grigia» della scienza positivista del XIX secolo e per questo in un articolo sulla rivista «Epilepsia» abbiamo riportato, traducendoli in inglese, i passi dei lavori di Lombroso in cui si parla dei rapporti tra epilessia e criminalità.

La relazione tra Lombroso e l’epilessia inizia con un episodio di assoluta attualità. Il 13 marzo 1884, nella caserma di Pizzofalcone (Napoli) il soldato calabrese Salvatore Misdea, affetto da epilessia, uccide 7 camerati e ne ferisce 13, risparmandione solo due perché calabresi come lui.

Lombroso è nominato perito e nella perizia scrive: «La stessa fisognomia, le stesse anomalie dei denti, la stessa vanità, pigrizia, amore per l’orgia. Non mancava nulla: Misdea invero portava nel volto, nel teschio e nei suoi comportamenti gli aspetti del criminale nato estesi a tutto il corpo ed identificati al massimo grado». Il Misdea verrà quindi condannato e fucilato. Fu allora che nella mente di Lombroso balenò l’idea che «la grande criminalità fosse una forma di equivalenza di epilessia» e che la «pazzia morale» fosse una forma di «epilessia larvata cronica», stabilendo una «perfetta identità» tra il crimine e l’epilessia. Va anche detto che allo stesso tempo ipotizzò che epilessia e genialità potessero essere collegate, come nel caso di Lev Tolstoj, che Lombroso incontrò a Mosca nel 1897 e che nel suo libro «L’uomo di genio» definì un «genio prodotto dalla pazzia epilettica». Inoltre, a riprova della sua serietà intellettuale, riscontrò in successivi studi in alcuni pazienti con epilessia un correlato anatomo-patologico delle sue speculazioni teoriche (studiando campioni autoptici di cervelli).
Verosimilmente, l’unico messaggio residuo di questa eredità lombrosiana nel 2000 è il seguente: i neuroscienziati e i criminologi possono oggi concordare sulla sua intuizione che in certi e limitati casi un cervello con una data alterazione anatomica può causare l’epilessia (e ciò e a volte dimostrato con la risonanza magnetica): ma rimane inaccettabile e politicamente incorretta l’ipotesi che i soggetti con epilessia possano diventare dei «mostri», capaci di crimini brutali in quanto portatori congeniti di un cervello «cattivo».

Le brillanti e a volte affascinanti intuizioni di Lombroso riuscirono a catturare l’immaginazione di artisti ed intellettuali: esempi sono «La resurrezione» di Tolstoj, «I miserabili» di Victor Hugo e «La bestia umana» di Emile Zola. Freud lo definì «grande e fantastico». Tuttavia ricordiamo che le sue teorie sulle basi biologiche della delinquenza contribuirono a creare un’atmosfera culturale favorevole alle politiche di eugenetica e persino dello sterminio del periodo nazifascista. Pertanto, il dibattito su Lombroso è lontano dall’essere concluso e la controversia sulla sua scientificità rimane in alto mare.

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