Culle vuote per le figlie del «baby boom»

È quanto moltissime donne toccano con mano nella vita di ogni giorno: in Italia è più difficile che altrove conciliare lavoro e famiglia. Pochi investimenti sulle famiglie, quasi inesistente flessibilità sul lavoro. Ma nel monito che è arrivato oggi dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) attraverso  il suo rapporto sulle politiche familiari  dove riassume i dati […]

È quanto moltissime donne toccano con mano nella vita di ogni giorno: in Italia è più difficile che altrove conciliare lavoro e famiglia. Pochi investimenti sulle famiglie, quasi inesistente flessibilità sul lavoro. Ma nel monito che è arrivato oggi dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) attraverso  il suo rapporto sulle politiche familiari  dove riassume i dati più significativi della situazione dei Paesi più sviluppati e che vede l’Italia agli ultimi posti in classifica, c’è qualcosa che deve far riflettere.

Il 24% delle donne nate nel 1965 non ha figli, contro il 10% della vicina Francia.

 

Si tratta di quasi un quarto delle 46enni di oggi. Le figlie del baby boom. Le donne che hanno studiato, si sono laureate, hanno cercato un posto nel mondo del lavoro. Perché è questo che sostiene l’Ocse: che in Italia la mancanza di strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia fa sì che le donne siano costrette a scegliere: o il lavoro o la famiglia. Un conto è la libera scelta, un conto la “scelta obbligata”.

Non so se c’entri qualcosa, ma nel leggere questi dati a me viene in mente per associazione di idee quanto sta accadendo in questi mesi nella nostra economia dove la Francia – Paese molto vicino per cultura all’Italia ma assai lontano per politiche per la famiglia – sta colonizzando (così in molti osservatori sottolineano) le imprese italiane. Comprando marchi del lusso come Bulgari, come ha fatto il colosso di Bernard Arnault, Lvmh, poche settimane fa; o dell’alimentare come Parmalat che in questi giorni è sotto Opa (Offerta pubblica di acquisto) da parte della francese Lactalis. Sarà solo il frutto di avere un sistema-Paese così forte come hanno i cugini d’Oltralpe e come sempre si dice?

E’ possibile che sia un’estensione eccessiva del ragionamento. Certo non è equivocabile ciò che dice l’Ocse. E cioè che in Italia ci sono sia i più bassi tassi di natalità (1,4 figli per donna, dato peraltro influenzato dalle famiglie degli stranieri in Italia che fanno un maggior numero di figli) sia uno dei più bassi tassi di occupazione femminile (48% contro una media Ocse del 59% e il 60% che era stato fissato dagli Obiettivi di Lisbona entro l’ormai passato 2010).

C’è, insomma – dice l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – necessità di più politiche che permettano di conciliare famiglia e lavoro. L’Italia – ricorda infatti il rapporto – destina alle famiglie con bambini solo l’1,4% del Pil (Prodotto interno lordo, l’indicatore della ricchezza di un Paese) rispetto al 2,2% della media Ocse. “Il problema dell’Italia – si legge nel capitolo del rapporto dedicato al nostro Paese – è che il lavoro retribuito è in contrasto con l’avere figli, mentre il lavoro dei genitori è una chiave per ridurre la povertà”.

Che fare? A parte politiche di spesa che difficilmente si riescono a intravvedere in questo periodo, un suggerimento si ricava da un altro dato interessante del rapporto Ocse: ”Meno del 50% delle aziende con 10 o più dipendenti offrono opzioni a tempo flessibile e il 60% dei lavoratori non ha controllo sui propri orari di lavoro”. Dunque, in primo luogo flessibilità di orario. Una soluzione che richiede un cambiamento culturale ma che è sostanzialmente a costo zero. Altrimenti si è costretti a ripiegare sul part time che non sempre però le imprese concedono, che in Italia è una caratteristica femminile (sono pochi gli uomini in part time, il 7 contro il 31% delle donne) e che quasi sempre in azienda vuol dire mettere una croce sul proprio avanzamento professionale.

Se, invece, si potesse immaginare una vera politica per la famiglia (per “le” famiglie, quali esse che siano) a cosa si dovrebbe pensare? Da tempo sono convinta che per come è fatta l’Italia – lunga e stretta, con forti differenze al proprio interno (non solo tra Nord e Sud ma tra grandi città e piccoli centri) – la leva su cui agire sia il fisco. Un anno fa Corriere Economia, supplemento del Corriere della sera che esce il lunedì, ha commissionato a tre docenti dell’Università Bocconi uno studio ad hoc. La nostra idea è che utilizzando il fisco si possano far entrare molte donne nel mercato del lavoro, aumentando il Pil e – come ci dice l’Ocse – diminuendo la povertà delle famiglie e dei bambini soprattutto. Bene, il risultato è stato che utilizzando le detrazioni fiscali, con una spesa massima di 5 miliardi di euro (meno di un terzo di quanto si spenda oggi per mantenere in vita le Province) lo Stato potrebbe aiutare tutti i genitori che lavorano ad avere cura dei loro bambini sotto i 3 anni, permettendo l’ ingresso di migliaia di donne nel mondo del lavoro, facendo emergere occupazione in nero, creando un nuovo mercato dei servizi alla famiglia. E trasferendo 500 euro per ciascun bambino sotto i 3 anni lo Stato spenderebbe un massimo di 7,1 miliardi di euro.

Quali sono secondo voi le politiche veramente necessarie?

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