Appalti pubblici: cambiano le leggi ogni settimana e così vincono corruzione e sprechi

Un codice con 273 articoli e 1560 commi, riformato 563 volte. Abbiamo il triplo delle leggi di Germania e Francia e 60 miliardi di corruzione.

CORRUZIONE NEGLI APPALTI PUBBLICI –

Ci hanno messo mano 563 volte in nove anni. Più di una volta ogni settimana. Quando si tratta di norme sugli appalti il Parlamento italiano diventa un esercito di stakanovisti, pronti a montare e smontare delle leggi fatte su misura per non funzionare. Nel 2006 si disse: rendiamo le cose più semplici e più trasparenti. Bene. Peccato che ne è venuto fuori un Codice degli appalti, riformato poi in 563 occasioni, con 273 articoli, 1.560 commi e 148 rinvii ad altre leggi. E tanto per confondere ancora di più le idee e complicare le procedure, quattro anni dopo il Codice, nel 2010, è arrivato anche il Regolamento attuativo. Altri 358 articoli, 1392 commi e vari regolamenti regionali, perché dopo lo Stato centrale anche le amministrazioni locali hanno voluto allungare le mani sulla torta.

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SPRECHI NEGLI APPALTI PUBBLICI –

Questa babele di regole che non ha uguali in Europa (sugli appalti abbiamo il triplo delle norme rispetto a Francia e Germania) è riuscita a realizzare un capolavoro di minima efficienza combinata alla massima corruzione. Intasando, per giunta, tribunali amministrativi e giustizia civile. Come si applica il Codice in eterno cambiamento? La domanda è stata rivolta, con relativi pronunciamenti, per 6155 volte alle autorità di vigilanza, oggi finalmente raccolte nell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) e 3000 volte, per un parere consultivo, alle sezioni regionali della Corte dei Conti. Oggi un terzo dei fascicoli aperti presso i Tar e il Consiglio di Stato riguardano proprio contenziosi in materia di appalti. Il giudizio di Raffaele Squitieri, presidente della Corte dei Conti, è lapidario: «L’eccesso di legislazione ha fatto sì che nei gangli del sistema si inserisca la corruzione». Quella che gli italiani pagano, ogni anno, con una bolletta di circa 60 miliardi di euro. Quella che puntualmente appare con le inchieste sulla maxi opere del cantiere del Belpaese.

APPALTI PUBBLICI IN ITALIA –

Ovviamente, poiché siamo in Italia, a ogni regola corrisponde un’eccezione, una deroga. E tutto fa brodo per allungare i tempi di un cantiere, di un appalto, di un lavoro, i cui costi si moltiplicano all’infinito. Le due opere pubbliche più importanti, entrambe finite nel mirino dei procuratori della Repubblica, il Mose di Venezia e l’Expo di Milano, contengono proprio questa patologia. Ben 72 appalti per l’Expo, per un valore complessivo di oltre 1 miliardo di euro, sono stati assegnati senza la pubblicazione dello straccio di un bando: tutto in deroga. Alla faccia del Codice, del regolamento e della varie interpretazioni. Il Mose, quando è stato approvato, cioè 16 anni fa, doveva costare 1.600 miliardi di vecchie lire: adesso, se tutto andrà bene, il conto sarà quattro volte superiore. E ancora non sappiamo se si stratta di un progetto indispensabile, o perlomeno utile alla comunità.

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APPALTI PUBBLICI E DISSESTO IDROGEOLOGICO –

Le carte, dunque, quando si tratta di appalti pubblici sono sempre in regola. Formalmente.  Poi si scopre che manca qualcosa, nella giungla di passaggi previsti, o semplicemente  viene fuori un’altra anomalia di questo sistema ispirato alla bulimia legislativa: la mancanza di progetti esecutivi, o l’impossibilità di realizzarli. Avete presente il pianto greco sul dissesto idrogeologico che ascoltiamo ogni volta che una pioggia torrenziale di trasforma in una calamità con morti e feriti? Ci sono, al momento, 2.600 cantieri bloccati in riferimento a qualche norma prevista dal Codice o dal Regolamento.  Di fronte al disastro, il governo Renzi ha messo in campo una Unità di missione per fare il punto su ciascuna opera e arrivare a un piano nazionale entro l’anno, e ha stanziato risorse per 7 miliardi di lire. Annusato il profumo di soldi, le regioni si sono precipitate a richiedere finanziamenti, per un totale di 21 miliardi di euro, tre volte la somma disponibile. Ma non ci sarà bisogno di alcuna selezione. L’80 per cento degli appalti, infatti, è fermo agli studi di fattibilità ed ai progetti allo stadio preliminare, tanto che palazzo Chigi ha deciso di rinviare la presentazione del piano nazionale al 2016. I tecnici del governo avranno bisogno di almeno un anno per capirci qualcosa prima di riaprire vecchi e nuovi cantieri.

CODICE E REGOLAMENTO DEGLI APPALTI –

Codice e regolamento, sommati, non sono riusciti a fare la cosa preliminare, a proposito di semplificazione e di trasparenza: ridurre le stazioni appaltanti. Ne abbiamo in pista 21.000 in tutta Italia. E ogni strada, dalla più piccola alla più grande, si trasforma così in una via crucis infinita. La Pedemontana, un’arteria fondamentale tra l’alto vicentino e l’alto trevigiano, è attesa dalla popolazione veneta da 48 anni. Mezzo secolo. La Bari-Matera, una semplice statale, da quindici anni. E visto che ciascuno può appaltare il lavoro che gli pare, in Calabria per divorare i soldi europei si sono specializzati nella costruzione di dighe, poco importa poi se vere o finte. Alle fine ne sono state previste, e pagate, 36, una ogni 50mila abitanti.

Eppure non ci vorrebbe molto per provare, almeno, a  mettere ordine nel caos degli appalti. Si potrebbe partire proprio dall’abolizione del Codice e del Regolamento degli appalti, come ha chiesto in Parlamento Francesco Pinto, presidente di Asmel, l’Associazione per la modernizzazione degli enti locali (vedi intervista in questa pagina), e dall’obbligo di gare telematiche, come già avviene in 900 enti locali di 16 regioni. Si tratterebbe, una volta tanto, di cancellare e di non ricominciare a scrivere nuove, inutili norme.

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