Acqua, quando il bene comune diventa una merce

Circa 250 mila cittadini hanno firmato per il referendum “Lacqua non si vende” che, senza scendere in tecnicismi, ha lo scopo di fermare la privatizzazione dellacqua pubblica. Io sto con loro, firmo; non solo, ma sono a favore delle proposte che stanno arrivando da piu’ parti per rendere effettiva la possibilita’ delle amministrazioni locali di […]

Circa 250 mila cittadini hanno firmato per il referendum “Lacqua non si vende” che, senza scendere in tecnicismi, ha lo scopo di fermare la privatizzazione dellacqua pubblica. Io sto con loro, firmo; non solo, ma sono a favore delle proposte che stanno arrivando da piu’ parti per rendere effettiva la possibilita’ delle amministrazioni locali di dichiarare il servizio idrico privo dinteresse economico, escludendolo cosi’ dal pacchetto di servizi da “liberalizzare” secondo il decreto Ronchi. Questo decreto, infatti, consente la privatizzazione degli acquedotti e dei vari servizi idrici collegati, previa gara dappalto. Cosi’ facendo si consentira’ a potenti gruppi di interesse economico di trattare lacqua come fosse una qualunque merce, e quindi di farci pagare non tanto un servizio, come oggi accade in situazioni di gestione pubblica, ma il bene stesso, come se esso appartenesse a chi ce lo “vende”. Il privato ha come fine quello di fare utili, le strade possono essere due: aumentare i prezzi o risparmiare sugli investimenti.

Sono contro la privatizzazione dellacqua non perche’ sia contro la privatizzazione tout court, ma perche’ il modo di procedere di questo decreto sta consegnando le reti idriche nelle mani di capitalisti senza imporre loro nessuna regola che li obblighi a proteggere lessenza di quello che e’ un bene comune. Questo e’ lacqua: una cosa di tutti. Una cosa che tra laltro comincia a scarseggiare a livello planetario, e quindi fa gola a livello economico. Non va semplicemente comprata e venduta pero’, va gestita affinche’ tutti ne abbiano, perche’ non ci siano sprechi, perche’ non venga inquinata, o usata per fini industriali e rimessa in circolo senza essere depurata, perche’ ce ne sia ancora per tanto tempo.

Vorrei pero’ che fosse chiara una cosa: la ragione dellavversione alla privatizzazione non risiede in una presa di posizione aprioristica contro il privato. In linea teorica nulla vieterebbe una corretta gestione dellacqua da parte di un privato che se ne assumesse il servizio. Il problema e’ che una corretta gestione di un bene comune puo’ essere realizzata solo da un attore fortemente radicato sul territorio, che si ponga come obiettivo lo sviluppo di quel territorio, la sua protezione e quella dei suoi abitanti e dei loro diritti. Ed e’ molto difficile che questo avvenga affidando la gestione dellacqua anziche’ a enti locali a societa’ di capitali o a banche.

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Lacqua pero’ e’ soltanto lo spunto per fare una riflessione piu’ ampia. Perche’ qui stiamo perdendo di vista una cosa intoccabile: i beni comuni devono esulare dalle logiche di mercato. Il che non significa che ci sia una formula esatta per la loro gestione. Intendo dire che non e’ detto che debba per forza essere lo Stato a farsene carico, deve invece poter partire una reale condivisione: che sia proprieta’ collettiva a gestione privata, che sia tutto pubblico o che sia un mix delle due cose non ha importanza, perche’ ci sono formule alternative, vecchie e nuove. Stiamo vendendo o svendendo tutto, dando in gestione a chi ha come unico fine laccaparramento, mentre certe cose non si dovrebbero toccare. Ricordo un grande del Barolo, lindimenticato Bartolo Mascarello, che si scaglio’ contro la curia di Alba, rea secondo lui di aver venduto a dei privati delle vigne storiche, vigne che erano a “beneficio collettivo”, tra i migliori cru di Langa. solo un esempio delle tante risorse comuni che la nostra Italia sta perdendo, e che avevano resistito anche alle spinte piu’ privatistiche tipiche dellOttocento e Novecento. “Vicinie”, “partecipanze”, “comunaglie”, “ademprivi”, “societa’ degli originari”, demani comunali: boschi, terreni agricoli, spiagge e coste, pascoli, terreni a uso civico che per secoli erano a disposizione di tutti, di cui la comunita’ si faceva carico per mantenerli e sfruttarli con senso del limite e garanzie per il futuro. Proprieta’ collettive o insieme di risorse naturali gestite dal Comune, dalla parrocchia, da gruppi di famiglie, reti di vicinato e associazioni, secondo regole complesse che risalgono in molti casi anche al Medioevo. Sono quelli che inglese si chiamano “commons”. Ci sono ancora esempi in Emilia, con le partecipanze agrarie che hanno origine ai tempi delle prime formazioni comunali e ancora oggi si trasmettono per discendenza diretta di padre in figlio: enti privati di diritto pubblico che hanno un regolamento per lassegnazione (a rotazione) delle terre per il diritto duso e di coltivazione. Oppure pensiamo alle regole che le comunita’ si sono sempre date per la raccolta di erba, frutti di bosco, funghi e legname nei terreni comuni. Perche’ dobbiamo ridurre tutto a una dicotomia tra pubblico e privato, che e’ stucchevole quasi quanto quella tra destra e sinistra?

Guardo al passato e vedo soluzioni di grande modernita’, che potrebbero aiutarci nella gestione dellacqua, nel ripristino dei pascoli, nel mantenimento dei boschi e degli alpeggi (che stanno tra laltro diventando sempre piu’ terreno di sfruttamento a danno dei malgari, i quali ogni anno si vedono aumentare arbitrariamente gli affitti per basi dasta dove spesso corrono da soli, perche’ gli unici rimasti a fare quel lavoro). Guardo al passato e vedo geniali soluzioni per lo sfruttamento locale delle biomasse (sfalci e legnami da buttare); luoghi dove costruire orti collettivi gestiti magari dai pensionati a beneficio della comunita’; un paesaggio difeso e valorizzato; reti idriche locali, allavanguardia ed efficienti, che garantiscono acqua a tutti, a prezzi tendenti allo zero, se non del tutto gratis.

Bisogna ridare dignita’ giuridica a queste antiche forme di gestione, perche’ realizzano cio’ che ne’ il pubblico puro, ne’ il privato puro sono in grado di garantire: i beni cui tutti hanno diritto, le risorse delle nostre terre, mari e acque. Ci metto anche il cibo, perche’ la stessa dignita’ va riconosciuta a forme di partecipazione collettiva in tema di cibo: che cosa sono i gruppi dacquisto solidali, gli orti collettivi urbani o il modello della community supported agriculture nato negli Stati Uniti, in cui si prevede lacquisto anticipato di tutta la produzione di un agricoltore da parte di un gruppo di cittadini che poi si vedono recapitare a casa regolarmente, perfettamente maturi e in stagione i prodotti? Sono cose ne’ pubbliche ne’ private, ne’ leghiste ne’ comuniste, ne’ passatiste ne’ utopiche. Modelli che funzionano, collettivi e innovativi, al di la’ di schemi stantii che ormai hanno solo piu’ questi scopi: fanno arricchire qualcuno, scarseggiare le risorse di tutti, perdere la nostra liberta’, il senso di far parte di una comunita’ e di avere potere sulle nostre stesse vite, lasciandoci da soli, a pagare bollette sempre piu’ salate.

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