Acqua privata, il caso Toscana. La Regione: “Azionariato popolare”

La Toscana, accade spesso, è uno spartiacque per comprendere se l’acqua che beviamo (la sua depurazione, i lavori sugli invasi, la gestione delle fogne) deve essere pubblica, privata, in mano a consorzi misti. Prima del 1994, quando fu varata la legge Galli che consentì alle società per azioni di entrare nella gestione del servizio idrico […]

La Toscana, accade spesso, è uno spartiacque per comprendere se l’acqua che beviamo (la sua depurazione, i lavori sugli invasi, la gestione delle fogne) deve essere pubblica, privata, in mano a consorzi misti. Prima del 1994, quando fu varata la legge Galli che consentì alle società per azioni di entrare nella gestione del servizio idrico (lo Stato e i Comuni non avevano abbastanza soldi per la manutenzione e lo sviluppo delle rete), in Toscana c’erano oltre duecento gestori, perlopiù comuni. Dopo il ’94, i gestori sono diventati sette per sei ambiti territoriali: sono entrati Acea, Monte dei Paschi, Lyoneaise des Eaux, Amga e poi Publiacqua, L’acquedotto del Fiore, la Geal. I nuovi consorzi hanno tutti la maggioranza pubblica e una forte partecipazione (tra il 40 e il 48%) privata. La Cgil, oggi, fa il sommario di 17 anni di privatizzazione: "La Toscana è stata la prima regione in Italia per costo delle bollette, con l’arrivo dei privati i servizi non sono migliorati, le tariffe sono aumentate, gli investimenti non ci sono stati. Il cittadino ci ha rimesso". Bisogna aggiungere che la perdita della rete è scesa dal 40 per cento al 28 è che oggi sette toscani su dieci (mezzo milione in più) bevono l’acqua che scende dal rubinetto.

Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ha già detto che voterà "no" sulla quarta scheda, la seconda sull’acqua: "Togliere la remunerazione del 7 per cento sulle gestioni vuol dire condannare gli acquedotti italiani

a non fare investimenti: oggi la mano pubblica non ha risorse per intervenire". Il 7 per cento è quello stabilito dal decreto Ronchi-Fitto, che apre la possibilità proprietà interamente privata sull’acqua e che il referendum, ora,  intende abrogare. Il sindaco di Pistoia, Renzo Berti, è in linea con Renzi: "A Pistoia dobbiamo allargare considerevolmente l’invaso di Gello, oggi non siamo autosufficienti: da 70 mila metri cubi dobbiamo passare a 900 mila. Occorrono 30 milioni di euro, chi ce li dà? Se si cancella il profitto del privato non diminuirà il costo delle bollette, solo avremo meno acqua dai rubinetti".

Il compagno di partito Enrico Rossi, presidente della Regione, voterà quattro "sì". E alla vigilia dei referendum il governatore annuncia il varo di una legge regionale che consentirà agli utenti di diventare padroni degli acquedotti (e dell’acqua che bevono). La legge permetterà ai cittadini (quindi privati) di acquistare azioni delle società di gestione. Alcune, tra l’altro, sono già quotate in Borsa. "Se centomila toscani investono trentamila euro otteniamo tre miliardi", spiega Rossi, "è la cifra necessaria al piano  ventennale". Le azioni acquistate dagli utenti sarebbero remunerate con un tasso di interesse leggermente superiore a quello bancario, ma inferiore al 7% riconosciuto oggi ai soci pubblici e privati.

Una proposta nuova, rivoluzionaria per molti versi. C’è da dire che la maggior parte dei sindaci toscani segnerà un doppio "sì" all’acqua pubblica, come racconta "Il Tirreno". "Oggi le norme sono ambigue: il pubblico paga e non comanda", sostiene il sindaco di Livorno Alessandro Cosimi. "Siamo 56 Comuni, possiamo farcela da soli", aggiunge Emilio Bonifazi, primo cittadino di Grosseto, "i mutui li otterremo anche senza i privati". Roberto Pucci, "major" di Massa: "Voto sì perché c’è il rischio reale di un aumento delle tariffe e di una perdita del controllo pubblico delle aziende". Gianni Anselmi, sindaco di Piombino: "Voto sì per cambiare la legge Galli laddove a minori consumi associa rialzi tariffari". Conclude Giorgio Del Ghingaro, Capannori: "Ci sono esempi di società pubbliche che fanno utili e sono efficienti".

I gestori (di centrosinistra) delle aziende idriche toscane  –  da Erasmo D’Angelis di Publiacqua a Claudio Ceroni dell’Acquedotto del Fiora  –  lanciano l’allarme: "Senza la remunerazione del capitale investito si riduce quasi totalmente la possibilità di accendere mutui. Nessun istituto bancario sarà disposto a fornire credito e questo impedirà alle società di fare investimenti sugli impianti fognari, la depurazione, il rinnovamento della rete". Prova a riassumere D’Angelis: "Nessun privato sarà interessato a investire nelle società dell’acqua, a quel punto i soldi li dovrà dare lo Stato. Noi nel 2010 abbiamo distribuito 14 milioni di dividendi, due milioni sono andati al Comune di Firenze, 700 mila euro a Pistoia".

In mano pubblica, nell’ambito Toscana Nord, è rimasto l’acquedotto che copre Massa Carrara, la Versilia, Lucca e parte del Pistoiese (44 comuni in tutto, una rete di cinquemila chilometri). Lo gestisce Salvo Gaia. A settembre, questo almeno prevede il piano industriale, Gaia cederà ai privati il 49% delle quote. Molti cittadini si sono mobilitati contro la privatizzazione dell’azienda. Il presidente di Gaia, Ermindo Tucci, replica: "Anche se vincerà il "sì", la privatizzazione la faremo lo stesso. Viene eliminato l’obbligo legale alla cessione ai privati delle quote azionarie, non l’obbligo economico. I Comuni non hanno soldi e la maggior parte delle società pubbliche cercherà azionisti privati comunque".

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